22 febbraio 2016

Una stanza tutta per sé

Per il gruppo di lettura organizzato dalla Jane Austen Society of Italy in collaborazione con (nientemeno che) la Biblioteca Salaborsa di Bologna ho riletto Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, un saggio cruciale per la letteratura occidentale e l’iniziatore dei gender studies – ovvero l’interpretazione del testo che tiene a mente il genere di chi lo ha scritto, e, perché no, anche di chi lo legge. I punti di interesse di questa lettura sono innumerevoli, e molti sono oggi ovvi ed evidenti, benché, soprattutto in questa contemporaneità, sembrino essere tornati a suscitare scalpore per qualcuno (ad esempio, il fatto che le donne siano rappresentate come il “contraltare” o la “spalla” di un uomo è il risultato di una sovrastruttura culturale, e non di un fatto naturale!) 
In particolare, voglio concentrami qui su quattro aspetti. 
1) Appena aperto il libro mi sono ritrovata a scrutare con attenzione le primissime righe e le scelte lessicali che le contraddistinguono. Il brano è costellato di indicatori di negazione (i corsivi nelle citazioni sono miei). «Qualche osservazione su Fanny Burney […], Jane Austen […], le Brontë […], la signorina Mitford […], George Eliot […], la signora Gaskell, e basta»; «Non sarei mai riuscita a giungere ad una conclusione. Non avrei mai potuto adempiere a quello che è […] il primo compito di un conferenziere»; «le donne e il romanzo restano […] problemi insoluti»; «non si può sperare di dire la verità»; «quello che descriverò non esiste»; «dalle mie labbra scorreranno menzogne». La valenza ironica di questo paragrafo mi pare fortissima e già da sola anticipa il contenuto dell’intero saggio, perché schernisce la tradizione critica precedente (maschile) che ha affermato precisamente questi principi, ovvero, che le donne non possono fare letteratura. Il compito del seguito dello scritto di Woolf è, ovviamente, confutare questa tesi fossilizzata ed eliminare, uno a uno, gli indicatori negativi per affermare che le scrittrici furono molte di più di quelle citate qui sopra e che una donna può sperare di giungere a una conclusione al termine di una conferenza (o di un saggio), risolvendo i problemi di partenza e affermando delle verità. 
2) I riferimenti alla fisicità sparsi tra le pagine sono rappresentazioni di quanto il corpo umano (e quindi il “genere”) sia un medium fondamentale per comprendere la realtà. Questa fisicità si concretizza nella percezione sensoriale del prato di Oxbridge dal quale la parlante viene cacciata via, con la «chioma sparsa» dei salici, il riflesso tremolante del ponte sull’acqua, le finestre che mutano colore per via delle nubi spostate dal vento. Si intensifica nella gustosa rievocazione del cibo: carni di salmone, pernici e daino inondate di salsa, un dolce «tutto zucchero» e vino paglierino. Indugia nel desiderio insoddisfatto – a causa dell’esser donna – delle sigarette, dei liquori e delle poltrone profonde delle stanze maschili. Si intensifica nell’immagine fugace di Judith, l’immaginaria (ma ne siamo certi?) sorella di Shakespeare che in cerca di fortuna artistica si è ritrovata incinta, e quindi perduta, e quindi suicida. Ritorna infine nella frase, fulminea, che già si intreccia con i principi delle teorie postcoloniali: «Uno dei grandi vantaggi di esser donna è appunto il fatto di poter passare davanti a una negra bellissima senza desiderare di farne un’inglese». 
3) La materialità dello sguardo di Woolf sulla storia della letteratura si esplica nell’insistenza sul concetto del possesso di denaro. Senza denaro una donna non può produrre arte, perché non ha a disposizione uno spazio privato nel quale lavorare, si perde in infinite preoccupazioni che esulano dal prodotto artistico, deve fare figli, non mangia a sufficienza e spesso non gode della salute necessaria per affrontare la fatica di produrre arte (altro ritorno alla fisicità). «Cinquecento sterline l’anno bastano per vivere alla luce del sole»: oggigiorno non sono certo cinquecento sterline l’anno (magari!), ma resta sempre il denaro la discriminante delle nostre possibilità di fare arte o cultura e del valore di ciò che facciamo. «Il denaro conferisce dignità a ciò che è frivolo se non è pagato». 
Virginia Woolf sembra qui presagire il “male” della mia generazione, che quando studia per anni, lavora sodo e si impegna spasmodicamente per fare cultura non riceve in cambio che contratti a progetto e compensi ridicoli – oppure lo fa proprio gratis! – e contemporaneamente si sente dire dalla società che la circonda, da vicino e da lontano: “Ma quando cominci a lavorare?” (e per le donne, specie se giovani, è ancora oggi un pochino più difficile, perché la voce maschile che fa letteratura, per esempio, è sempre ritenuta a priori più preziosa, più originale, più meritevole di essere ascoltata, più “indimenticabile”). 
4) Per chiudere il cerchio, Una stanza tutta per sé offre la ragione per cui probabilmente Jane Austen è ancora così tanto amata, ovvero, spiega il principio per cui leggere i suoi romanzi è per la maggior parte di noi un incommensurabile conforto: «Forse, per natura, Jane Austen non desiderava ciò che non aveva».