26 luglio 2015

La casa di vetro

Un souvenir del Bröhan-Museum, il museo
dell'art nouveau a Berlino 
Negli ultimi dieci giorni, dopo Il grande Gatsby di Fitzgerald – ritratto della disperazione della gioventù americana postbellica, incapace di vivere il presente – ho letto il doloroso romanzo di Simon Mawer La casa di vetro (tradotto in italiano da Massimo Ortelio per Neri Pozza). L’ambientazione cronologica iniziale è la stessa del libro di Fitzgerald, gli anni Venti – con la loro opulenza e la scintillante proiezione verso il futuro – ma con il procedere dei capitoli il romanzo affronta i mostri del Novecento, il precipitare dell’Europa nella nuova guerra, la dissoluzione della Cecoslovacchia, l’invasione dei nazisti e poi l’arrivo dell’Armata Rossa, fino a toccare il 1990, con la sua intuizione della caduta della cortina di ferro. 
Il principio che tiene insieme il racconto – la costruzione e le sorti di una “casa di vetro” – è di per sé un ossimoro: può infatti una casa, luogo deputato al rifugio e alla dedizione all’individualità, essere una vetrina offerta allo sguardo pubblico? Il giorno dell’inaugurazione, il padrone di casa, Viktor Landauer, dichiara orgoglioso che la volontà di vivere in un soggiorno che è una scatola di vetro dimostra la trasparenza e l’onesta dei suoi abitanti; ma lo sviluppo della storia dirà di inganni, di tradimenti, di fughe, di feroci compromessi con la Storia. La prima parte del romanzo, quella dedicata al progetto e alla costruzione della casa, è straordinaria; è quasi una ekphrasis architettonica, che celebra le qualità della materia con l’ambizione della rappresentazione della luce e dello spazio come concetto filosofico. Rainer von Abt, l’autore del disegno, dichiara: «“L’acciaio avrà la trasparenza dell’acqua. La luce sarà solida come le pareti e le pareti limpide come l’aria. Creerò una casa diversa da qualunque altra, spazi capaci di mutare funzione […] una casa che si fonde con il giardino, un luogo naturale e artificiale nello stesso tempo”». Al loro primo ingresso, «Liesel e Viktor rimasero a bocca aperta davanti a quel trionfo di lucentezza: la luce rimbalzava dai pilastri cromati, splendeva sulle pareti, scintillava sulla rugiada del giardino, riverberava dai vetri […] rendeva il pavimento di linoleum color avorio quasi traslucido, come se fosse ricoperto da un velo d’acqua». Luce, aria, acqua: la casa dei Landauer è un Raum (spazio), intessuto di una insostenibilità solo apparente, perché l’edificio è sorretto da pilastri d’acciaio e da una parete d’onice che convoglia la luminosità dell’esterno fino a creare una sorta di incantesimo, una visione di fuoco. La “villa Landauer” del romanzo è ispirata a una casa veramente costruita alla fine degli anni Venti nei pressi di Brno, in Repubblica Ceca. Villa Tugendhat, patrimonio dell’umanità dal 2003, è il simbolo di un’epoca vestale del progresso, ma soprattutto di una speranza impossibile: quella della condivisione definitiva e della convivenza pacifica dell’uomo con gli altri uomini, dentro la natura.

Villa Tugendhat. Esterno ed interno del soggiorno, con le vetrate e la parete in onice.
(Immagini tratte da Wikipedia  e da czechtourism.com)


17 luglio 2015

Letture di luglio

In queste ultime settimane, a dispetto delle mie abitudini, mi sono ritrovata a leggere più libri contemporaneamente. Una puntatina nel mondo di Agatha Christie, che d’estate non può mai mancare (come ho raccontato, ormai tre anni fa, qui e qui), la sceneggiatura della prima stagione di Downton Abbey (di Julian Fellowes, ed. it. Neri Pozza) l’inizio del saggio di Carlo Rovelli Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi), e poi Un giorno di gloria per Miss Pettigrew e Un anno in Provenza
Un giorno di gloria per Miss Pettigrew di Winifred Watson (tradotto per Neri Pozza da Isabella Zani) fu un bestseller nel 1938, anno della sua pubblicazione: è la storia di una donna non più giovane, bruttina e in bolletta, che per una fortunata coincidenza si ritrova a condividere un’intera giornata con una cantante/attrice, nel suo mondo scintillante fatto di makeup, splendidi abiti, innamorati aitanti e nightclub. I capitoli sono scanditi dal trascorrere delle ore e dei minuti, e mentre l’orologio cammina Miss Pettigrew si libera lentamente del guscio impostole da un perbenismo fittizio – ancora “vittoriano”, nel senso negativo del termine – e si lascia andare alle gioie di una nuova vita e di una nuova società. Una perfetta commedia “all’inglese”, fatta di pochi sussulti ma di tante, tantissime scenette che strappano più di un sorriso. 
I capitoli di Un anno in Provenza di Peter Mayle (trad. it. di E. Castellani per EDT) sono invece intitolati ai dodici mesi dell’anno. L’esperienza dello scrittore inglese e di sua moglie, trasferitisi in questa particolare regione della Francia meridionale, è raccontata con grande umorismo, e soprattutto con profonda attenzione ai ritmi naturali che governano la vita in campagna. La casa scelta per il loro esilio è un mas, cioè una fattoria, fiancheggiata da ciliegi e da vigne, costruita con i muri spessi che proteggono l’interno dal Mistral e completa di fontane, cipressi, cespugli di rosmarino, ciuffi di lavanda, un mandorlo e una piscina; i suoni che la circondano sono il fischio del vento, il gracidare della rana, il frinire delle cigales e il «canto lungo e perlato di un usignolo». 
Il cibo è il fil rouge che scorre attraverso le pagine di questo libro: l’autore non teme di dilungarsi sulla descrizione di tavolate ingombre di verdure lussureggianti, pesci fragranti e formaggi sfiziosi – come da buona tradizione francese. Le incursioni ai mercati dei villaggi di Provenza non possono dunque mancare di descrivere l’abbondanza di cibi sparsi ovunque: «Ad una estremità del mercato […] una donna vendeva uova fresche e conigli vivi, mentre dietro a lei si vedevano banchi pieni di verdura, piccoli mazzi di basilico profumato, vasetti di miele di lavanda, bottiglie verdi della prima spremitura dell’olio, vassoi di pesche […]. Attraversammo la strada per acquistare un paio d’etti di pane, quel gros pain che offre una mollica così gustosa per l’olio o il condimento rimasto nel piatto. La panetteria era affollata e rumorosa, d’intorno si effondeva il profumo della pasta lievitata e delle mandorle usate quella mattina per i dolci.» Ma il mercato significa anche chincaglieria datata, eppure investita di quella strana aura di fascino che avvolge spesso gli oggetti vecchi, usati e persino non più integri: «Cartoline color seppia stinto vecchie camicie di tela vicino a mazzi di vecchie posate; […] spille art déco e vassoi da bar; libri ingialliti di poesie e l’immancabile sedia Louis XIV, perfetta, salvo l’assenza di una gamba.» 
Fiori al mercato di Prenzlauer Berg.
Foto di Mara Barbuni, 2015
Questo brano mi è tornato in mente passeggiando in uno dei mercati più belli di Berlino, quello del sabato nel quartiere di Prenzlauer Berg. Anche qui si trovano banchi di verdura che, sebbene per poche settimane all’anno, sembrano le teche di una gioielleria: frutti di bosco dai colori roventi, carciofi sbocciati come fiori, vasi opulenti di erbe aromatiche, infine tavolozze di spezie, pagnotte profumate e pesanti di mollica. E poi gli oggetti di artigianato, e i robivecchi, la bigiotteria vintage, il materiale di recupero, le gonne colorate fatte a mano, la signora che vende i cappelli, quella che cuce coprisella di stoffa per la bicicletta e quella più anziana di tutte, seduta su una sedia di fronte a un minuscolo tavolo ingombro di prodotti alla lavanda: lei è sempre vestita di violetto e di lillà, e dopo esserle passati accanto il profumo dei fiori sembra non volerci lasciare. E a proposito di fiori ecco il banco più bello di tutti, che ogni settimana sembra una nuova opera d’arte, offrendo ai berlinesi – non sono tanti i turisti che passano da qui… – magnifiche composizioni di rose inglesi e girasoli, gladioli, gigli, calle, felci, iris, ortensie, girasoli, lillà, mughetti e tutto ciò che i giardini possono regalare quando sollecitati dal rintocco di una nuova stagione.