31 marzo 2011

Il profumo delle foglie di limone

Stamattina sul treno ho finito di leggere Il profumo delle foglie di limone di Clara Sanchez, che da settimane compare nella top ten delle vendite. Naturalmente non è questa la ragione che mi ha spinto a incominciarlo: è stato invece il titolo, che con le sue suggestioni estive mi ha attratta verso la storia. Non avevo considerato il fatto che le traduzioni italiane si prendono spesso certe libertà ingiustificate - le foglie di limone hanno infatti poca importanza ai fini della narrazione, che non a caso in spagnolo si intitola Lo que esconde tu nombre (Che cosa nasconde il tuo nome). 
In ogni caso, e nonostante il disorientamento, non è stata una brutta lettura. La definirei piuttosto una lettura semplice. Un po' troppo. 
I temi trattati sono davvero interessanti: le difficoltà delle relazioni fra generazioni differenti, il peso della storia sul presente, i ricordi scomodi delle vittime di una catastrofe umanitaria da non dimenticare, il conflitto tra la realtà e l'apparenza, tra l'individualismo e la responsabilità civile. Ma il racconto è fragile, è come se mancasse del sostegno di una grande voce narrativa. Chissà, forse la lingua spagnola - che non conosco - dona alla storia una maggiore enfasi, un maggior calore. 
Insomma, dopo un terzo della lettura mi sentivo già arrivata alla fine, come se la scrittura avesse già dato fondo a tutte le sue potenzialità. E infatti quando stamattina ho raggiunto l'ultima pagina, i cambiamenti della situazione iniziali - dettati dallo svolgimento della fabula - si sono presentati abbastanza scontati. Peccato, perché le premesse erano davvero allettanti. 
Forse una diversa scrittura (o traduzione?); una più accurata definizione dei personaggi (specie quelli maschili); una più sensibile indulgenza sulla rievocazione storica; un più acceso, anche violento, interesse per la ricerca della verità avrebbero reso la narrazione più intensa. 
Forse ci sarebbe voluta la penna di Kate Morton.


29 marzo 2011

Perché io leggo

Leggo per sprofondarmi nelle parole, che sono il nutrimento del pensiero.
Leggo perché i libri sono il catalizzatore delle mie fantasticherie.
Leggo per appropriarmi di mondi che non sono miei e vivere in un tempo che non esiste più.
Leggo per esplorare i meandri dell'immaginazione.
Leggo per imparare a scrivere.
Leggo per sondare "gli abissi del cuore umano" (Goethe).
Leggo per conversare, come Machiavelli, con i grandi scrittori e le grandi scrittrici.
Leggo per viaggiare, con la mente, e con il treno, mentre vado a lavorare.
Leggo perché "fatti non [fummo] a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza" (Dante).
Leggo perché i libri contengono le foglie secche dell'autunno, i suoni della notte, il vento delle colline, il sole e la pioggia estiva, tutti i sapori più buoni, le carezze più dolci, la paura, la nostalgia, il ricordo. La gioia.

26 marzo 2011

Perché si legge?

Questa settimana, in una delle mie classi (si tratta di allievi di un istituto professionale per la ristorazione) ho posto questa domanda: perché, secondo voi, la gente legge? G. ha risposto che la gente legge per staccarsi dalla realtà di tutti i giorni; A. pensa che si legga per imparare tante cose che altrimenti non si potrebbero conoscere; un'altra A. dice che chi legge non ha niente da fare; un'altra G. sostiene che chi legge è all'antica.
Per quanto mi riguarda la lettura è un aspetto irrinunciabile della vita - è qualcosa che mi rende felice.
E voi, cosa ne pensate? : )


22 marzo 2011

Scrivere scrivere

Sono da qualche giorno in pausa con l'aggiornamento del mio blog, perché sono ritornata a lavorare sulla mia storia. Sono da diverse settimane agli ultimi capitoli del mio "romanzo" (uso le virgolette, perché mi fa un po' paura dare questo nome a quelle decine e decine di pagine...), e adesso sento che è il momento di concludere. Ma come in ogni literary mistery che si rispetti, il finale è all'insegna dell'azione e di un po' di concitazione - e questi sono toni ai quali non sono proprio abituata. Come mi è stato detto, del tutto giustamente, durante una lezione di scrittura creativa, io riesco meglio nel delineare le atmosfere piuttosto che nel tracciare delle sequenze di fatti. Eppure in questo mio tentativo ho fatto di tutto per raccontare una storia attiva: e adesso che siamo quasi al sipario devo costruire bene il mio coup de thèatre. Nel frattempo, per mantenere sveglia la mia immaginazione da "giallo", sto leggendo un altro libro di P.D. James - si chiama La torre nera, e dopo il bellissimo Morte sul fiume mi sta riempiendo di suggestioni enigmatiche e di pura suspense. 

17 marzo 2011

Italia mia, benché 'l parlar sia indarno


Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che ’ miei sospir’ sian quali

spera ’l Tevero et l’Arno,

e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.
[...] Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna et pia,
[...] ché l’antiquo valore
ne gli italici cor’ non è anchor morto.
[...] Signor’ [...]
[a]l passar questa valle
piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno,

vènti contrari a la vita serena;
et quel che ’n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto piú degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,

in qualche honesto studio si converta.
[...] Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché fra gente altera ir ti convene,
et le voglie son piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura

fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.
Di’ lor: - Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace. 

                                                                               Francesco Petrarca, Canzoniere, CXXVIII

16 marzo 2011

Alla vigilia della festa dell'Unificazione

Per la vigilia dell'anniversario dell'Unità d'Italia voglio pensare a quelle letture (risalenti soprattutto ai tempi del liceo) che hanno trattato i concitati anni del Risorgimento. In questi giorni ho ripreso in mano Piccolo mondo antico di Fogazzaro e mi domando perché non venga studiato nelle scuole - a mio parere sarebbe uno straordinario sostituto dei Promessi Sposi. Il mondo antico di Fogazzaro rappresenta infatti l'Italia della seconda guerra di indipendenza, con tutta la forza del sentimento patriottico, le paure della polizia austriaca, il senso della rivoluzione imminente, il tormento giovanile che sempre accompagna i periodi di repressione politica. E su questo sfondo la figura di Luisa brilla per autonomia e coraggio - una donna finalmente attiva (distantissima dalla Lucia manzoniana), dalla personalità conquistatrice, dal pensiero furente, una donna libera. La notte in cui Franco decide che quando sarà il momento si unirà alla guerra contro l'Austria, "Luisa mormorò sulla bocca di suo marito: - Se viene quel giorno, tu vai; ma vado anch'io. - E non gli permise di rispondere". E Franco stesso vede la moglie come una "creatura dall'intelletto forte sopra l'amore e orgoglioso, [...] tutta vibrante nella coscienza della sua ribellione." Franco, che "non vedeva salute che in una rivoluzione, in una guerra, nella libertà della patria. Ah quando l'Italia fosse libera, come la servirebbe, con che forza, con che gioia!"
Di Manzoni, in tema patriottico, vale la pena piuttosto rileggersi "Marzo 1821", anche se è nel coro dell'atto III di Adelchi che si ritrovano tutta la forza e la grandezza del bisogno di indipendenza. Ma forse la più intensa, la più giovane, la più devastante nella percezione del bisogno di cambiare il paese, di ribellarsi, di restituire all'Italia il suo diritto alla bellezza e alla gloria è l'ode All'Italia di Giacomo Leopardi (riporto qui solo alcuni versi):
O patria mia, vedo le mura e gli archi/ E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri, / Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi/ I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
[...] Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,/ Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo/ Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia/ Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,/ Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
[...] Perché, perché? dov'è la forza antica,/ Dove l'armi e il valore e la costanza?
[...] Come cadesti o quando/ Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende/ Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
[...] Attendi Italia, attendi. Io veggio, o parmi,/ Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di spade/ Come tra nebbia lampi.
Sono i nostri poeti a richiedere, a rappresentare, ad esprimere il bisogno di festeggiare degnamente, domani, l'Unità d'Italia.

15 marzo 2011

I sepolcri

A egregie cose il forte animo accendono/ l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra/ che le ricetta. Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande/ che temprando lo scettro a' regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela/ di che lagrime grondi e di che sangue;
e l'arca di colui che nuovo Olimpo/ alzò in Roma a' Celesti; e di chi vide
sotto l'etereo padiglion rotarsi/ piú mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all'Anglo che tanta ala vi stese/ sgombrò primo le vie del firmamento:
- Te beata, gridai, per le felici/ aure pregne di vita, e pe' lavacri
che da' suoi gioghi a te versa Apennino!/ Lieta dell'aer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli/ per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d'oliveti/ mille di fiori al ciel mandano incensi:
e tu prima, Firenze, udivi il carme/ che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco,
e tu i cari parenti e l'idïoma/ désti a quel dolce di Calliope labbro
che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma/ d'un velo candidissimo adornando,
rendea nel grembo a Venere Celeste;/ ma piú beata che in un tempio accolte
serbi l'itale glorie, uniche forse/ da che le mal vietate Alpi e l'alterna
onnipotenza delle umane sorti/ armi e sostanze t' invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto./ Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed all'Italia,/ quindi trarrem gli auspici. 
E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi./ Irato a' patrii Numi, errava muto
ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo/ desïoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,/ qui posava l'austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza./ Con questi grandi abita eterno: e l'ossa
fremono amor di patria.

                                                                                                    Ugo Foscolo, Dei Sepolcri (vv. 151-197)                                                                         
Non c'è ode all'Italia libera più grandiosa di questa.

14 marzo 2011

La patria nostra


La fine del Settecento è stata anche per il nostro Paese il principio di un nuovo, inedito senso della nazione. L'idea di Italia, che secoli di frammentazione politica e amministrativa avevano quasi annichilito, risorge in questi anni come una necessità ragionata ma anche appassionata, concepita sulle basi di una identità culturale ben chiara: sono Dante e Petrarca, gli innovatori se non i creatori della nostra lingua, i veri padri della patria. Un'opera fra le più belle a farsi portatrice dell'ideale di riunificazione e quindi della sofferenza dovuta alla sottomissione allo straniero sono le Ultime lettere di Jacopo Ortis. L'apertura è di una densità e di un dolore insopportabili, tali da rendere inimmaginabile l'idea che l'Italia debba versare in una situazione di separazione (dovuta in questo caso alla cessione della Serenissima agli austriaci con il trattato di Campoformio, 1797): "Il sacrificio della patria nostra è consumato. Tutto è perduto". La patria nostra è qui, naturalmente, Venezia, ma si tratta di una sineddoche efficace: Foscolo è da annoverarsi fra i primi e più accorati propugnatori del mito della nazione italiana. Nella stessa pagina Jacopo lamenta che "noi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl'italiani", rendendo ben evidente a chi l'autore si rivolga parlando della patria. Del resto, Foscolo è acceso cantore e difensore delle glorie nazionali (italiane) in quello che è per me il maggiore componimento in versi della letteratura italiana (insieme con la Ginestra leopardiana), Dei Sepolcri. Nel 1809, inoltre, il poeta di Zacinto esorta gli italiani all'amore per la patria in Dell'origine e dell'officio della letteratura con queste parole: "O Italiani [...] visitate l'Italia, o amabile terra!" e parlando di Dante, Galileo e Tasso invita i compatrioti: "Prostratevi su' loro sepolcri, interrogateli come furono grandi e infelici, e come l'amor della patria [...] accrebbe la costanza del loro cuore, la forza del loro ingegno e i loro beneficii verso di noi".


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11 marzo 2011

Tutto cominciò in Francia...

Ritornando al tema delle insurrezioni - dal quale ho non poco divagato - vorrei citare qui due poesie di Anna Letitia Barbauld (1743-1825) che trattano entrambe di rivolte antigovernative, e che sono entrambe, in qualche modo, di contesto francese. E' dalla Francia, infatti, che tutto è cominciato: la maggioranza dei moti insurrezionali che hanno rovesciato l'Europa per tutto il corso dell'Ottocento hanno infatti preso ispirazione, diretta o indiretta, dallo spirito libertario promosso, suscitato e divulgato dal pensiero illuminista. Anche il Risorgimento italiano, del resto, si è sviluppato a partire dai principi della rivoluzione francese.
Ma veniamo alle due poesie di Barbauld, un'autrice sulla quale mi soffermerò più a lungo in altre occasioni.
Il titolo della prima, scritta nel 1792, è "To a Great Nation", ed è rivolta proprio alla Francia rivoluzionaria. E' il suo incipit a suscitare particolare interesse: "Alzati, o potente nazione! in tutta la tua forza,/ e spargi intorno la tua terribile vendetta;/ Possa il tuo grande spirito, infine risorto,/ abbattere le orde dei despoti" (ho tradotto in italiano, per quanto il dettato inglese sia molto più vigoroso). 
La seconda poesia si chiama invece "Corsica", ed è dedicata alla ribellione guidata dal patriota Pasquale Paoli (1755). L'incipit è una descrizione dell'isola, costituita da poche parole che però trasmettono con grande significatività sia l'estetica del luogo che l'etica della popolazione: "Salve Corsica generosa! isola indomita!/ Forte della libertà; che tra le onde/ emerge come rocca di diamante, e sfida/ la più selvaggia furia delle tempeste battenti." La conclusione, scritta dopo che la poetessa ebbe notizia del fallimento della rivolta, è a sua volta particolarmente efficace: "E tuttavia resta una libertà, di gran lunga più nobile/ di quella che re o senatori possono togliere o concedere;/ distante dai crudeli artigli del superbo oppressore/ essa sta sicura, intatta, indistruttibile;/ degna degli dei; è la libertà della mente." Direi che questi versi si intonano molto bene anche al nostro tempo.


7 marzo 2011

Strane creature

La spiaggia di Lyme Regis. Foto di Mara Barbuni (2007)
Un'ammonite sulla spiaggia di Lyme.
Foto di Mara Barbuni (2007)
Sarà perché mio marito è un icnologo, ma Strane creature è uno dei libri più affascinanti che abbia letto di recente. E' la storia (romanzata, ma ispirata alla realtà) di Elizabeth Philpot, una paleontologa dilettante, e della sua amicizia con Mary Anning, una ragazzina di Lyme Regis la cui principale occupazione è esplorare la spiaggia alla ricerca di resti fossili. I suoi rinvenimenti sono frequenti e redditizi, ma ordinari (si tratta soprattutto di ammoniti), finché un giorno il suo scalpello si imbatte sull'enorme occhio fossile di una bestia sconosciuta. La notizia richiama a Lyme grandi scienziati e cercatori, e dopo molte vicissitudini - pubbliche e private - alla figura di Mary viene riconosciuta la maternità della scoperta del primo ittiosauro (1810), e più tardi, del primo plesiosauro nella storia della scienza. Gli ittiosauri e i plesiosauri scoperti da Mary, così come i pesci fossili di Elizabeth, sono oggi conservati ed esposti al Natural History Museum di Londra.

4 marzo 2011

Il mare fra le pagine/2

Ullapool, Scotland. Foto di Mara Barbuni (2009)
Nel post precedente ho parlato dei romanzi in cui l'immagine della donna è legata al sentimento dell'attesa, e dunque a quella particolare dimensione del mare che è essenzialmente domestica, costiera (come appare dalla fotografia qui accanto). 
Ma le storie di mare sono soprattutto storie di uomini. Il primo autore a cui penso è Joseph Conrad; nei suoi Tifone, Nostromo, Cuore di tenebra, Lord Jim, La linea d'ombra, il mare è metafora della solitudine dell'uomo, della tragedia del suo isolamento e della sua vana ricerca della pace ("Il mare non è mai stato amico dell'uomo. Tutt'al più è stato complice della sua irrequietezza", Lo specchio del mare). Così drammatica e letale è la visione del mare anche in Moby Dick di Melville e in Il vecchio e il mare di Hemingway. 
Anche in I Malavoglia di Verga gli uomini vivono l'esperienza del mare come scissione dalla normalità, come abbandono delle certezze naturali, eppure come stringente necessità, contro la quale non è possibile dibattere o combattere. E se per i poveri marinai della "Provvidenza" tale necessità è di natura economica, risultato di un'aspra e quotidiana lotta per la sopravvivenza, i protagonisti di altre storie sembrano prendere - o riprendere - il mare per l'incontrollabile bisogno di navigare, di sfidare le acque, di trovarsi soli a cospetto della coscienza, della conoscenza, della fortuna. E' questo ardore che spinge l'Ulisse dantesco a lasciare per la seconda volta Itaca; a questa identica urgenza si ispira lo Ulysses di Tennyson, quando dice: "How dull it is to pause, to make an end,/ To rust unburnish'd, not to shine in use!/ As tho' to breathe were life! [...] Come my friends,/ 'Tis not too late to seek a newer world./ Push off, and sitting well in order smite/ The sounding furrows; for my purpose holds/ To sail beyond the sunset, and the baths/ Of all the western stars, until I die." 
Ma il mare più intenso e vivo raccontato in versi è quello di Coleridge nella Ballata del vecchio marinaio. Qui il mare è simbolo di tutte le sfaccettature del cuore umano, nonché dei suoi parossismi: è il luogo dell'armonia con la natura e della dissociazione; il luogo dell'amore e dell'assassinio; della speranza e della disfatta; della malvagità e del perdono; della vita e della morte. Ma è soprattutto il covo dei ricordi, perché il vecchio marinaio, pur approdato alla terraferma, è condannato a non potersi mai più dimenticare del mare, e anzi, la sua espiazione consiste nel dover ripetere ai passanti il corso delle sue avventure. Così la distesa dell'acqua diventa anche il luogo del racconto; e le parole, come le onde, rotolano incessanti, l'una dopo l'altra, quiete o roboanti, consolatorie o terribili, per l'eternità. 

1 marzo 2011

Il mare fra le pagine

Il mare intorno a Tantallon Castle Scotland
Foto di Mara Barbuni (2009)
Sylvia's Lovers è un libro che ti fa sentire il frastuono del mare. Lo senti ringhiare mentre inghiotte la prua delle baleniere, lo ascolti raccontare le storie di marinai perduti, ne intuisci il mugghiare lontano anche quando passeggi sulle ventose colline. Il mare è per Sylvia il luogo della nostalgia, è l'elemento di Charley, dell'amore che il destino le ha sottratto. Nelle onde che si rincorrono e si divorano l'un l'altra ella vede il volto dell'uomo che avrebbe voluto sposare; seduta sulle scogliere, con i capelli sciolti che significano la libertà perduta della giovinezza, Sylvia si lascia amare dal mare e si permette di risentire, anche se solo per poche ore, la wilderness delle proprie passioni. Le donne e il mare sono un motivo ricorrente nella letteratura; e le immagini di una donna, sola, di fronte alla sterminata distesa dell'acqua portano spesso con sé emozioni di struggimento e di aspettativa, a volte disperata. Penelope ne è l'archetipo; ma come la Sylvia di Elizabeth Gaskell, è la Sarah di La donna del tenente francese (John Fowles, 1969) a dettarci il senso dell'attesa, del rimpianto, del dolore che rasenta la selvatichezza e quasi la follia. Il mare di Sarah è quello che ingoia il Cobb di Lyme Regis; la stessa distesa grigia, tempestosa e straziante che Jane Austen racconta in Persuasion; la stessa marea che, complice la volubilità della luna, il vigore del vento e la fragilità delle rocce, scopre alla vista di Mary Anning le meraviglie fossili del bellissimo Strane creature di Tracy Chevalier.