22 dicembre 2015

Lord Tennyson

Alfred Tennyson with book (1865)
Julia Margaret Cameron
Cari amici di Ipsa Legit (il vostro numero è aumentato tantissimo nelle ultime settimane… grazie!), per trascorrere insieme questi ultimi giorni prima del Natale vorrei condividere con voi qualche immagine di un’età perduta due volte. Due volte perché il poeta di cui voglio scrivere oggi visse a metà dell’Ottocento – e fu il supremo interprete dell’età vittoriana, amatissimo dalla Regina e dai suoi contemporanei – ma con i suoi versi risvegliò le voci e le arie sognanti di un medioevo da fiaba. 
Lord Alfred Tennyson (1809-1892) fu il primo scrittore a ricevere il titolo nobiliare da parte di un monarca e fu nominato “poeta laureato” nel 1850 (dopo Wordsworth). La sua poesia è influenzata dall’invenzione immaginifica e dalla musicalità della scrittura di Keats, e il linguaggio, ricco di ritmi e di rime, e caratterizzato da una metrica accuratissima, dà vita a mondi fantastici, nostalgici, onirici, di grande suggestività. Tra le sue opere, il poema Maud (una storia di disperazione, di morte e di pazzia) era il preferito della Regina Vittoria; The Lady of Shalott è la rappresentazione di una femme fatale che vede il mondo solo attraverso uno specchio, poi infranto dall’apparizione di Lancillotto (l’estetica di questo tema fu di forte ispirazione per la pittura preraffaellita); Ulysses è la celebrazione della vita, della lotta, della ricerca indefessa; In Memoriam, dedicato a un caro amico morto giovanissimo, è un pianto straziante sulla perdita dell’amicizia e della fede (parlando di Giordano Bruno, Tennyson affermò di condividerne l’idea di Dio) che, strutturato sul triplice ritorno della ricorrenza natalizia, affronta anche i dubbi laceranti destati dall’evoluzionismo darwiniano.
John William Waterhouse, The Lady of Shalott (1888)
Tra gli scritti più celebri c’è la raccolta di dodici poemi narrativi in blank verse Idylls of the King, che fu dedicata al Principe Alberto e che si basa in parte sui racconti, appartenenti al ciclo arturiano, dello scrittore del XV secolo Thomas Malory (Le Morte d’Arthur). I personaggi di questa raccolta sono quindi Artù, Gareth e Lynette, Lancillotto, Merlino e Vivien, Ginevra, e vi compaiono gli oggetti ricorrenti nel ciclo arturiano, come Excalibur, la tavola rotonda e il Santo Graal. Nel 1875 l’artista Julia Margaret Cameron, vicina di casa di Tennyson a Freshwater (Isola di Wight) fornì le fotografie per l’edizione illustrata della raccolta: i suoi ritratti effondono proprio l’aura eterea di un’età perduta, grazie ai contorni sfocati, ai contrasti chiaroscurali e agli sguardi dei soggetti ritratti, intrisi di nostalgia. 
Mi piace chiudere questo post con alcune tra le citazioni da Tennyson che amo di più, e nelle quali spero possiate trovare i più caldi auguri per un buon Natale e un anno nuovo pieno di speranza… 

È meglio avere amato e perduto che non avere amato mai

Se avessi un fiore per ogni volta che ho pensato a te, 
potrei camminare nel mio giardino per l’eternità

Io sono parte di tutto ciò che ho incontrato

Noi, s’è quello che s’è: una tempera d’eroici cuori, 
sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri 
sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai
(trad. di Giovanni Pascoli)

Non è mai troppo tardi per cercare un mondo più nuovo

 La speranza sorride dalla soglia dell’anno nuovo, 
e sussurra: “Sarà più felice”

Julia Margaret Cameron (per Idylls of the King):
"Lancelot and Guenevere", "Sir Galahad and the Pale Nun", "Vivien and Merlin" 


13 dicembre 2015

Lo spirito di Emily Brontë

Qualche tempo fa ho recensito la prima uscita della collana “Windy Moors” dedicata alla letteratura vittoriana, ideata e curata dalla casa editrice digitale (ma non solo) flower-edTre anime luminose fra le nebbie nordiche – uno studio sulle sorelle Brontë. Della stessa autrice, Giorgina Sonnino, e nella stessa collana è uscito recentemente un saggio pubblicato in origine sulla Nuova Antologia (1904), intitolato Il pensiero religioso di una poetessa inglese del secolo XIX: Emilia Giovanna Brontë, un’interessante osservazione del rapporto della scrittrice con la religiosità. 
Il saggio, come spiega il suo titolo, si concentra in particolare sulle composizioni poetiche di Emily, e merita di essere letto non solo per le citazioni che ne fa, ma anche per la ricchezza del suo stile. È bello, bellissimo, riscoprire una critica letteraria così genuina e intensa, fatta di amore puro per la letteratura, e non solo (come spesso avviene al giorno d’oggi) di elucubrazioni filosofiche che finiscono per dimenticarsi completamente del testo e del sentire originale dell’autore. E se per leggere questo tipo di critica dobbiamo rispolverare contributi vergati sulla carta più di un secolo fa… allora grazie a flower-ed, che con pazienza spulcia le riviste primonovecentesche alla ricerca di grandi sensibilità interpretative. 
Giorgina Sonnino definisce Emily (e totalmente a ragione, secondo me), «la figura di gran lunga più originale» fra i figli del Reverendo Brontë, ed è molto acuta nell’individuare nel tessuto geografico nel quale la scrittrice viveva la radice della sua ispirazione letteraria. La descrizione delle moors (parola che Sonnino lascia in inglese, ritenendola intraducibile) è molto evocativa, e il verbo usato per visualizzare i giovani Brontë all’interno di quel paesaggio è affascinante: «vagavano», tipico verbo del Romanticismo supremo (in tedesco wandern) al quale diede fama imperitura il dipinto di Caspar Friedrich. Altrettanto attenta e magnetica è la rappresentazione che Sonnino ci dà della fantasia di Emily, «popolata di spiriti», accesa da «un miraggio di colori» e del suo sconfinato amore per la libertà. Non mancano, in questo saggio, citazioni dalle più importanti voci critiche contemporanee che si occuparono della sua poesia, come Matthew Arnold, Byron o Swinburne, e il rimpianto per la morte precoce di un’autrice che oltre ai versi ribelli e a Cime tempestose avrebbe sicuramente potuto donare al mondo altre pagine indimenticabili. Nel merito specifico della religiosità di Emily, Sonnino parla di una «religione sua individuale» che ha i tratti dell’immanenza di Dio nella natura e della necessità del Bene, intuita con una straordinaria, e forse difficilmente riconosciuta alle donne, «grande potenza di astrazione».

2 dicembre 2015

La poesia di Elizabeth Siddal

Durante il mio ultimo viaggio in Italia ho ricevuto in dono da mia sorella un librino molto bello, sia per forma che per contenuto: Poesie di Elizabeth Siddal, pubblicato da Damocle Edizioni. Damocle è una casa editrice indipendente specializzata nella pubblicazione di saggistica, poesia, libri d’artista e teatro: la sua libreria si trova a Venezia, a San Polo, in Calle del Perdon 1311. Alla manifestazione Artbookberlin 2015, una fiera del libro d’artista che si è tenuta a Berlino qualche giorno fa, ho incontrato Damocle “di persona”: lo stand era ricco di vere opere uniche che mescolano la letteratura con le più disparate forme artistiche - dall’acquerello al mosaico, dalla fotografia all’illustrazione a matita - servendosi di raffinate tecniche e materiali come la carta cotone, la stampa a caratteri tipografici, la cucitura a mano, il vetro, il velluto, la madreperla. (Per consultare il loro catalogo: https://edizionidamocle.wordpress.com/
In quell’occasione non ho saputo resistere e ho acquistato un altro volumetto, del quale parlerò prossimamente: Walter Sickert: una conversazione di Virginia Woolf. 
Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix
(Londra, Tate Britain), 1872
Ma torniamo a Elizabeth Siddal, la musa dei Preraffaelliti, che posò per Walter Howell Deverett, William Holman Hunt e John Everett Millais, fu la protetta di Ruskin, sposò Dante Gabriel Rossetti, e fu a sua volta una pittrice e disegnatrice: le opere ispirate a temi letterari e il suo autoritratto a olio furono esposti nel Salone Preraffaellita di Russel Place. La raccolta delle sue quindici poesie, tradotte (e introdotte) in questo libricino da Conny Stockhausen, rivela una sensibilità fortemente caratterizzata dalle atmosfere languide, quasi morbosamente malinconiche, di quel tardo Ottocento: come dimostrano i versi di Tennyson (sommo poeta dell’età vittoriana), i motivi della temperie romantica si sciolgono in una nostalgia dolorosa eppure delicatissima, in un rimpianto del passato nel quale la passione d’amore e il senso sempre incombente della morte si fondono ineluttabilmente. In “Amore e odio” (Love and Hate) Siddal scrive: «Volgi altrove i tuoi bugiardi occhi cupi, / e non posarli sul mio viso; / immenso amore ti diedi: ora l’immenso odio / s’insidia crudelmente al suo posto», e non posso fare a meno di pensare che si stia rivolgendo a Dante Rossetti, suo amante e poi marito, dal quale Elizabeth ricevette lezioni d’arte, passione sfrenata ma anche tanta implacabile sofferenza. E i versi di “Un anno e un giorno” (A Year and a Day) «Il fiume scorre eterno / nel suo letto erboso, / le voci di migliaia di uccelli / risuonano sul mio capo, / mi porteranno un sogno ancora più triste / di quando questo triste sogno avrà fine» mi sembrano come l’ekfrasis dell’Ophelia di Millais, riportata non a caso sulla copertina del volumetto. Il viso di Ofelia morta è quello di Elizabeth Siddal.

John Everett Millais, Ophelia (Londra, Tate Gallery), 1851-2.  Particolare.

Un interessante e completo sito web sulla pittrice e poetessa è http://lizziesiddal.com/portal/