26 ottobre 2013

I Crawley e gli “altri”: il conflitto etnico e sociale a Downton Abbey

Fonte: telegraph.co.uk
Come ben sanno i suoi fan, da qualche settimana in Inghilterra è in onda la quarta serie di Downton Abbey, pluripremiata serie televisiva di produzione angloamericana creata da Julian Fellowes, la cui terza stagione dovrebbe essere trasmessa in Italia nel periodo natalizio. Ho avuto modo di parlare altre volte di Downton su IpsaLegit, ma in questo post mi interessa sottolineare come questa serie sia anche un interessante spazio di analisi delle differenze etniche e sociali che hanno contribuito a fare della cultura inglese ciò che essa è. Il quasi unanime plauso della critica, il vastissimo consenso di pubblico e i numerosi riconoscimenti che le sono stati assegnati sono dovuti di certo al cast (molto noto in Gran Bretagna anche per le sue partecipazioni a riduzioni televisive dei grandi classici), ai costumi e alle ambientazioni, ma anche alla capacità della serie di rievocare con attenzione al dettaglio le atmosfere dell’Inghilterra del primo Novecento. La contrapposizione tra strati sociali e, in senso lato, tra il popolo inglese e il resto del mondo sono elementi dell’età e della cultura edoardiana che Downton Abbey sottolinea con accuratezza, proponendo episodi, spunti narrativi e brani di sceneggiatura che tendono evidentemente al ritratto socio-culturale.
Il primo aspetto da tenere in considerazione è l’ambientazione. Downton, i cui esterni e la maggior parte degli interni sono stati girati ad Highclere Castle nell’Hampshire, si trova nella contea di York. La lingua parlata dalla servitù, in particolar modo, è fortemente caratterizzata dall’accento tipico del nord dell’Inghilterra: quando li sentiamo parlare, Anna, Thomas e la signorina O’Brian tradiscono immediatamente la loro provenienza soprattutto nella cadenza e nel modo di pronunciare le vocali. Nello Yorkshire la popolazione è profondamente legata alla proprie radici e alla propria tradizione, e vanta un’identità ben definita che la differenzia dagli abitanti delle altre contee del Regno. Elizabeth Gaskell, nel suo Sylvia’s Lovers ambientato a Whitby all’epoca della coscrizione obbligatoria dovuta al protrarsi delle guerre napoleoniche, scrive: "it is certain that the southerners took the oppression of press-warrants more submissively than the wild north-eastern people. […] A Yorkshireman once said to me, “My county folks are all alike. Their first thought is how to resist.” […] In other places [the press-gangs] inspired fear, but here rage and hatred." (Gaskell, Elizabeth, Sylvia’s Lovers, OUP, 1999, pp. 7-8).
Questa attitudine alla forza e alla “resistenza” è propria dei personaggi più radicati alla terra dello Yorkshire attraverso il legame linguistico: Anna (la capocameriera), la signorina O’Brian (cameriera personale di Lady Grantham), la signora Patmore (la cuoca) e la signora Hughes (la governante) sono tutte rappresentate come donne dallo spirito infaticabile, fiero e reattivo. Un inglese piuttosto standard è invece parlato dalla famiglia Crawley, formata da Lord Grantham, sua moglie Cora, le figlie Mary, Edith e Sybil, e la contessa madre Lady Violet (interpretata da Maggie Smith). La separazione tra i due grandi gruppi di personaggi che abitano a Downton Abbey è proprio il motore dell’intera narrazione, che costantemente sposta il focus dal piano di sopra, o “piani alti” (upstairs), le stanze degli aristocratici, al piano di sotto, i “piani bassi” (downstairs), territorio della servitù.
Il rapporto tra la famiglia e il suo piccolo esercito di dipendenti è per molti versi leggibile come una metafora delle relazioni tra l’Inghilterra e gli stati sottoposti al suo dominio. Emblematico a questo proposito è uno scambio di battute tra Daisy, la sguattera, e la signorina O’Brian: alla domanda della prima, “A cosa serve stirare i giornali?” la seconda risponde, “Vuoi che Lord Grantham si ritrovi le mani nere come le tue?” [stagione I, episodio 1]. La stessa Daisy, che rappresenta in assoluto il grado infimo dell’articolata gerarchia di Downton, sottolinea il fatto che nelle cucine venga preparato troppo cibo per la famiglia [I.1]. Quando si viene a sapere che una delle cameriere, Gwen, desidera lasciare il servizio per cominciare a lavorare come segretaria [I.4], l’evento diviene oggetto di conversazione della famiglia riunita a tavola alla presenza di alcuni ospiti: la contessa madre sostiene che forse la legge non dovrebbe permetterglielo, “per il bene comune”, e viene rimbeccata dalla cugina Isabel che le domanda: “rimpiangete forse i tempi della schiavitù?”. La stessa cugina Isabel afferma che sarebbe giusto aiutare Gwen “a progredire”, ma Lady Violet – in tutto e per tutto simbolo della vecchia Inghilterra resistente al cambiamento – chiosa: “non se questo va contro i suoi interessi”. Uno spiccato paternalismo è in effetti la cifra che contraddistingue la relazione tra upstairs e downstairs a Downton, quasi in obbedienza agli stessi principi per cui l’inglese vittoriano si era abituato a rapportarsi con il “buon selvaggio” delle colonie. La gentilezza con cui i Crawley trattano i loro sottoposti rivela come essi ravvedano nei membri della servitù delle persone bisognose di attenzione, di cortesia, ma anche di consigli e di una guida esperta per affrontare le sfide della vita. Lord Grantham sembra quasi sentirsi in colpa quando il suo valletto, claudicante per una ferita di guerra, tradisce il dolore e la fatica nell’esercizio delle proprie mansioni, e sua moglie Cora, che in un episodio viola la privacy della servitù riunita per colazione entrando nella loro sala senza preavviso, si rivolge alla propria cameriera personale con “se vogliamo essere amiche…”.
Highclere Castle
La grande casa è per molti versi un simbolo dell’Inghilterra, non solo perché ne incarna le più antiche tradizioni ma anche poiché viene rappresentata come un’isola (essa si erge, solitaria, su un vasto territorio tenuto a prato) nettamente contrapposta a tutto ciò che, provenendo “da fuori”, costituisce un motivo di mutamento, talvolta progressivo, molto più spesso minaccioso. La sigla del primo episodio della prima stagione, diversa da quella comune a tutti gli altri, inizia con l’immagine del treno che porta a Downton il signor Bates (il nuovo valletto di Lord Grantham): egli è evidentemente un forestiero, il cui legame con Lord Grantham è dovuto alla loro partecipazione insieme alla guerra in Sudafrica. Contemporaneamente, la sigla mostra i telegrafisti del villaggio di Downton che ricevono il messaggio dell’affondamento del Titanic, il dato storico che dà il motore all’intera vicenda fittizia. 
A causa del naufragio della nave e della morte dei due eredi legittimi di Downton, infatti, un lontano cugino di Lord Grantham, Matthew Crawley, diventa il suo successore: viene dunque invitato a vivere nel villaggio e con il suo ingresso nella famiglia innesta il germe di un profondo cambiamento nelle sue sorti (per dirla con Propp, il suo arrivo rappresenta la rottura dell’equilibrio preesistente, momento cruciale di uno schema narrativo, e costituisce l’ingresso sulla scena dell’eroe destinato a grandi imprese – la prima guerra mondiale, rappresentata nella seconda stagione – e all’unione con la principessa – in questo caso, Mary Crawley).
La figura di Matthew è assimilabile a quella di un “selvaggio” che a causa di circostanze sgradite a tutti viene introdotto in una “vera” casa inglese. Matthew viene da Manchester, non è nobile, è figlio di un medico e non è un “gentiluomo”, poiché deve lavorare per vivere (esercita l’avvocatura). Il suo ingresso nella famiglia di Lord Grantham è interpretato come un disperato tentativo di venire “civilizzato” – persino il maggiordomo e i camerieri si sentono a disagio in sua presenza, e lo trattano come un parvenu zotico e ignorante: Thomas gli spiega come comportarsi a tavola, e il suo valletto personale, il signor Mosley, si chiede se sia opportuno che un uomo come Matthew, che si veste da solo (“non mi abituerò mai a farmi vestire come un bambolotto” [I.2]) e non ama essere servito, divenga il padrone di Downton. Matthew stesso non apprezza il nuovo stato delle cose, perché comprende che i Crawley lo vogliono a loro immagine e somiglianza, e alla madre dichiara: “Non permetterò che mi cambino, io devo essere me stesso” [I.2]. Le critiche più feroci a Matthew giungono da Mary, che all’inizio della loro conoscenza non fa che sottolineare le differenze tra una vita aristocratica e un ménage borghese. Il (fondato) timore di Mary è che i genitori le impongano di sposare Matthew per salvaguardare contemporaneamente il titolo nobiliare, la dimora, e il denaro provenuto dalla dote di Cora: la giovane racconta a tavola [I.3] la leggenda di Andromeda e Perseo, evidentemente paragonando se stessa alla principessa offerta in sacrificio, Evelyn Napier, un nobiluomo ospite a Downton, a Perseo, e Matthew, naturalmente, al mostro che minaccia il futuro del sangue reale.
Evelyn Napier è l’inconsapevole responsabile di uno scandalo che minaccerà di travolgere Downton per tutta la durata della prima e della seconda stagione della serie. È lui infatti a portare a casa dei Crawley Kemal Pamuk, giovane e affascinante ambasciatore turco che morirà nel pieno della notte nella stanza di Mary, trasformandola agli occhi della famiglia da principessa a “merce avariata” – come la definisce sua madre. L’episodio in cui si compie la vicenda di Pamuk [1.4] inizia molto significativamente con una battuta di caccia che metaforizza non solo il rapporto tra Mary e Napier (lei lo ha invitato a Downton con l’obiettivo di farsi chiedere in moglie) e tra Mary e Pamuk (durante la notte lui la “stanerà” nella sua stessa camera da letto), ma soprattutto mette in scena, in un tripudio di cani, cavalli e giubbe rosse, la quintessenza della cultura inglese aristocratica. Non a caso, Matthew afferma di non cacciare (accetterà di farlo però, nel Christmas Episode 2010 che chiude la seconda stagione, a testimonianza del completamento del suo processo di assimilazione ai Crawley), di preferire i libri, e nelle stesse ore dell’uscita degli altri si dedica alla visita di alcune chiese dei dintorni.
L’incontro di Downton con Pamuk è eloquente dal punto di vista del rapporto fra la Englishness e lo straniero di origini orientali. I commenti che lo riguardano, gli atteggiamenti nei suoi confronti, ma anche il carattere e l’istintività che gli sceneggiatori attribuiscono al suo personaggio tradiscono pregiudizi legati alla sua “selvaticità”, nonché all’irrefrenabile sensualità ad essa correlata. Prima di vederlo, Mary lo definisce “un buffo levantino con il sorriso smagliante e la testa intrisa di brillantina”; Lord Grantham parla di lui come “un bocconcino per le signore”; e Thomas, il cameriere omosessuale, tenta con lui un approccio al quale Pamuk reagisce commentando: “dovete liberarvi dei pregiudizi britannici sugli stranieri”. Il suo richiedere a Thomas di essere poi accompagnato nella stanza di Mary (in una scena di forte sapore gotico: la casa buia, i due guidati da una candela, il “libertino” che assale una – consenziente, in verità – fanciulla vestita di bianco) ha però l’effetto di confermare quegli stessi pregiudizi. Interessante, durante lo scambio di battute tra i due, dopo che Mary chiede a Pamuk se la sposerà, la risposta di lui: “Purtroppo non credo che la nostra unione renderebbe felice la vostra famiglia – né la mia”, le cui ultime tre parole suscitano un’occhiata sorpresa da parte della giovane inglese.
Nel corso della notte, nel letto di Mary, Pamuk viene colpito da infarto e muore. La ragazza è costretta a confessare l’accaduto prima alla sua cameriera poi alla madre, innescando un meccanismo di timore dello scandalo, di ricatti e di minacce che come detto proseguirà per molti episodi successivi. L’evento del conflittuale incontro tra gli inglesi e il turco si chiude con le parole dell’anziana Lady Violet, che il mattino dopo l’accaduto commenta: “Non poteva che accadere a uno straniero, è tipico […]. A nessun inglese verrebbe mai in mente di morire in casa d’altri.”
Fonte: dailymail.co.uk
Non è tuttavia solo con lo straniero orientale che Downton Abbey è chiamata a confrontarsi. Nello stesso episodio [I.4] viene introdotto un personaggio che porterà grande scompiglio nella famiglia. È il nuovo chaffeur, Tom Branson, irlandese, colto e repubblicano, che alla fine della seconda stagione [II.8], dopo molte peripezie e dopo la fine della guerra (che per ammissione di tutti i personaggi ha generato un mondo che “non sarà mai più quello di prima”) sposerà Sybil e la porterà con sé a Dublino. Lord Grantham ha molte difficoltà ad accettare questa unione; Sybil esclama “non puoi certo rinchiudermi”, e Branson lo accusa di essere “uguale a tutti quelli della sua categoria. Pensate di avere il monopolio dell’onore”, contestando così apertamente quell’anglocentrismo che la famiglia Crawley e tutti coloro che essa rappresenta danno per scontato. La storia d’amore conosce una lieta evoluzione: Sybil parte per l’Irlanda con il benestare del padre, e quando scrive alla famiglia di essere incinta [Christmas Episode 2011] quest’ultimo commenta: “So we’re going to have a Fenian grandchild”, la cui traduzione, nella versione italiana, “irlandese”, non rende pienamente il carico di pregiudizio e rassegnazione insiti nella scelta dell’aggettivo originale. I due tornano a Downton in occasione del matrimonio di Mary [III.1]: durante la prima cena tutti insieme, per la quale Tom si è rifiutato di cambiarsi d’abito con somma costernazione di Lady Violet (“Is it an Irish tradition?”, chiede; ed ella stessa, presentata al fratello di Tom in III.7 lo definirà “gorilla”), il nuovo arrivato ha modo di offrire un “vivid display of Irish character” lamentandosi con veemenza dell’oppressione britannica sugli irlandesi. Alla fine però, simbolicamente accettando di vestire un morning coat adeguato al giorno delle nozze, anche Tom si trasforma da outsider (come egli definisce se stesso e Matthew) a membro della famiglia.
Inoltre, all’interno dell’élite Crawley è possibile assistere ad un costante confronto con la cultura della più grande colonia inglese: Cora, la moglie di Lord Grantham, è originaria di New York. Il matrimonio tra i due, avvenuto trent’anni prima per motivi di denaro – la famiglia rischiava di perdere Downton e Cora disponeva di una dote molto sostanziosa – non era stato particolarmente benvisto dalla contessa madre, e sebbene con il tempo Cora sia divenuta quasi “più realista del re” (nella seconda stagione, sarà la prima e la più feroce ad osteggiare la riqualificazione della grande casa in convalescenziario per i feriti di guerra), la sua americanità è spesso oggetto di battute e di (lieve) conflitto. Quando ella chiede alla contessa madre se la famiglia di Evelyn Napier sia di antico lignaggio, l’anziana Violet le risponde: “Più antico del tuo sicuramente”; quando propone a Mary di sposare Matthew nonostante i suoi modi siano spiccatamente borghesi, la figlia ribatte: “Tu sei americana, non puoi capire”; e anche quando ella propone al marito di considerare l’ipotesi che Sybil possa sposare Branson, la reazione di lui è: “Se vuoi fare l’americana con me, scendo al piano di sotto.” Alla fine del Christmas Episode che chiude la seconda stagione, quando ormai lo scandalo a proposito di Mary e Pamuk rischia di venire alla luce, l’intera famiglia decide che la giovane vada a stare per un po’ a New York: l’America sembra essere da loro considerata una sorta di moderna colonia penale.
La più eclatante dimostrazione del contrasto tra la cultura inglese e quella americana è però rappresentato all’inizio della terza stagione, quando in occasione del matrimonio di Mary giunge a Downton la madre di Cora, la signora Martha Levinson (interpretata da Shirley MacLaine). Gli scambi di battute tra lei e la matriarca dei Crawley sono molto espressivi; Lady Violet dichiara che quando vede la consuocera le tornano alla mente (per contrasto) le virtù degli inglesi, e si rivolge alla stessa Mrs Levinson rimproverandola del fatto che “voi americani non capite mai l’importanza della tradizione”. A questo biasimo la signora ribatte che forse sarebbe ora che l’Europa permettesse al mondo di gestirsi da solo. Del resto nemmeno Mrs Levinson si risparmia di criticare gli inglesi per la loro immobilità e la loro refrattarietà al progresso – dice a Mary di voler sapere tutto sui preparativi delle nozze in modo tale da poter lei stessa apportare i dovuti miglioramenti. La sua cameriera scende nelle cucine di Downton per spiegare che alla signora deve essere servita acqua fatta precedentemente bollire – una richiesta che fa solo quando si trova in Inghilterra. Evidentemente l’asserita supremazia della cultura inglese non ha più molta presa sugli “stranieri”, che non dimostrano più alcun timore reverenziale. Durante una conversazione con la cugina Isabel, che si occupa di beneficenza, Mrs Levinson le chiede se debba contribuire con del denaro, aggiungendo: “Isn’t that what the English expect from rich Americans?”. Nei modi di questa schietta americana ospite a Downton Abbey, l’Inghilterra è raffigurata come un’anziana signora ormai paralitica, neanche troppo pulita, che ha costantemente bisogno dei suoi figli più giovani per tentare di sopravvivere.

24 ottobre 2013

Hallowe'en Party

Qui a Berlino le decorazioni per Halloween abbondano, e i tramonti degli ultimi giorni, riflessi sulle foglie color ruggine, oro e arancione dei parchi e dei boschi di questa città non fanno che allietare l'atmosfera. Camminare nel cuore del Tiergarten o lungo la passeggiata che parte dalla stazione di Bellevue e raggiunge l'omonimo castello lungo la Sprea fiancheggiata dagli alberi e dai lampioni è un'immersione nel colore: la luce s'infiltra tra le fronde facendole brillare, gli aliti di vento scuotono piano i rami e lasciano scendere a terra cascate di foglie dai colori roventi, che si ammassano sulle loro compagne già cadute. 
Berlino, Bellevue. Foto di Mara Barbuni (2013)
In occasione della vicina vigilia di Ognissanti e della mia riscoperta del mondo di Agatha Christie ho letto Hallowe'en Party (in italiano: Poirot e la strage degli innocenti), che oltre ad essere un ottimo romanzo del mistero è un omaggio alla vegetazione autunnale. Protagonista geografico della storia è uno splendido giardino, un luogo che secondo la definizione dello stesso detective è talmente pieno di bellezza da apparire pericoloso. "Adesso era autunno e anche all'autunno si era provveduto regalando al giardino il rosso e l'oro degli aceri, tra i quali si snodava un sentiero che conduceva intorno ad altre delizie. C'erano dei cespugli di ginestra in fiore... o forse d'erica. [...] Poirot guardò un arbusto di uno speciale rosso dorato che incorniciava qualcosa. E per non un attimo non capì se ciò che vedeva esisteva realmente oppure era un semplice gioco di luci, ombre, foglie. [...] Quello dove si trovava non era un giardino inglese. Aveva un'atmosfera speciale, [...] fatta di magia, d'incanto, di bellezza, una bellezza insieme schiva e selvaggia. Chi avesse scelto quel giardino come scena teatrale vi avrebbe trovato ninfe e fauni, armonia classica e paura. Sì, in quel giardino c'era la paura."
La bellezza e la paura sono i due leitmotiv di questo romanzo. Uno dei protagonisti è un uomo di una bellezza sorprendente, innamorato di se stesso tanto che Poirot lo chiama "Narciso"; e la paura è un filo rosso che scorre tremante dall'inizio alla fine della vicenda, tirato e fatto vibrare da frequentissimi richiami alla follia, ai manicomi, agli psicopatici che appaiono persone normali e pacifiche e poi passano il tempo a commettere omicidi. L'aspetto particolarmente inquietante di questa storia è la presenza dei bambini e degli adolescenti, di cui gli adulti parlano con accenti terrificanti: la prima vittima è una ragazzina accusata da tutti di essere una bugiarda, la seconda un bambino definito sgradevole, "spione" e colpevole di ricatto; Poirot e i suoi interlocutori parlano di creature di sette-otto anni che si macchiano di un assassinio....
Il libro fu scritto nel 1969, molto più in là dunque della Golden Age degli anni Trenta, e forse anche per questo è più spaventoso, perché più vicino al nostro modo di vivere, e non più addolcito, nella nostra mente, da quelle confortanti visioni di gonne a sbuffo, bustini, giacchine di lana e auto d'epoca. Tra le righe si trovano persino parole come "computer" e "LSD"... e il messaggio finale, con questa insistenza a proposito della depravazione giovanile, ci lascia con l'amaro in bocca, nonostante l'esperienza di una lettura, come al solito, perfetta.
Il film che dal libro è stato tratto ("Agatha Christie's Poirot", serie 12, ep. 2) mi è parso meno oscuro, sia per l'ambientazione decisamente precedente all'epoca della pubblicazione che per la splendente magnificenza del giardino, sia per la rappresentazione di bambini molto più rassicuranti che per l'indulgenza sui più familiari simboli di Halloween: le zucche, la strega, la "storia del terrore" raccontata da Poirot davanti al camino acceso. Un'ottima oretta e mezza da trascorrere, mercoledì prossimo, con una cioccolata calda fra le mani e una ghignante Jack o' Lantern accesa appoggiata sul balcone, a sfidare il buio.

20 ottobre 2013

Agatha Christie

Mercoledì prossimo, sulla rete britannica ITV, sarà l'inizio della fine. Dal 23 ottobre infatti cominciano ad essere trasmessi gli ultimi (ma proprio gli ultimi) episodi di "Agatha Christie's Poirot", la serie che dal 1989 diletta i fan della più grande giallista di tutti i tempi, grazie ai costumi, alle ambientazioni e all'interpretazione di David Suchet, l'unico attore ad aver vestito i panni dell'investigatore belga per l'intero canone. I film già programmati sono "The Big Four" (trasposizione di Poirot e i quattro) e "Dead Man's Folly" (La sagra del delitto, in onda la settimana successiva), mentre gli altri due, "The Labours of Hercule" (Le fatiche di Hercule) e "Curtain" (Sipario), concluderanno il 2013 e apriranno il 2014.
Miss Lemon, l'ispettore Japp, Poirot e Hastings
negli ultimi episodi della serie "Agatha Christie's Poirot"
(agathachristie.com)
Questa ricorrenza, insieme alla rilettura di Le fatiche di Hercule e di The House at Riverton di Kate Morton, in cui la protagonista Grace incontra Agatha Christie nel corso di una cena a casa dei suoi padroni, ha stimolato il mio interesse per la biografia dell'autrice, di cui non mi ero mai occupata, e per la genesi delle sue ottanta opere. Ho così scoperto un grande mondo di appassionati e di critici, e il sito agathachristie.com, straordinariamente ricco di informazioni, curiosità e suggerimenti di lettura.
Come prevedibile, il desiderio di procurarmi tutti i libri di Christie o almeno la serie di Poirot, e le auto/biografie, è diventato un pungolo insistente: la signora pare infatti essere stata un personaggio intrigante e meraviglioso come il suo protagonista.
La sua An Autobiography si apre con righe che poco sembrano adattarsi ad una scrittrice così dedita ad avvelenamenti, sangue, beghe familiari e tragedie della gelosia: "Una delle cose più fortunate che può succedere nella vita è avere un'infanzia felice. La mia è stata molto felice. Avevo una casa e un giardino che amavo; una tata saggia e paziente; e per padre e madre due persone che si amavano tanto e furono una eccellente coppia di coniugi e di genitori".
La breve raccolta Clues to Christie, che ho iniziato a leggere proprio ieri sera, che comprende tre racconti e una interessante introduzione a cura dell'esperto John Curran, ha acceso, per me che non ne sapevo nulla, una piacevole luce sulla vita della Regina del Mistero, rivelando aspetti della sua esistenza che offrono molte spiegazioni sulla natura delle sue storie.  
Agatha Miller nacque a Torquay (Devonshire), nelle vicinanze della Cornovaglia, nel 1890. La sua infanzia fu davvero felice come racconta la sua autobiografia, e nonostante la morte del padre quando lei aveva solo undici anni, anche la sua giovinezza non fu da meno. Poté infatti viaggiare, appassionarsi al teatro, studiare musica a Parigi e ricevere diverse offerte di matrimonio. Decise però di sposare Archie Christie (1914) e, con l'inizio della guerra, di lavorare come dispensiera volontaria all'ospedale. Ecco una spiegazione per la sua straordinaria conoscenza dei tipi e degli effetti dei diversi veleni....
Nel 1926 il suo paradiso si infranse con la morte della madre e con la richiesta di divorzio da parte del marito, in conseguenza della quale si verificò un episodio clamoroso e inquietante.
Il 3 dicembre di quell'anno, infatti, Agatha scomparve dalla sua casa. Venne ritrovata dieci giorni dopo in un albergo della città termale di Harrogate, sola, registrata con un nome falso, e completamente dimentica di quanto accaduto. Il mistero che circondò la sua sparizione (allora i suoi libri erano già estremamente celebri, e proprio in quell'anno The Murder of Roger Ackroyd stava godendo di un enorme successo) fece grande scalpore, e persino Arthur Conan Doyle fu convocato per cercare una possibile soluzione. Oggi i medici hanno trovato una spiegazione scientifica all'episodio definendolo "trance psicogenica", ovvero una rara condizione di amnesia dovuta allo stress e alla depressione (per maggiori dettagli: http://www.theguardian.com/uk/2006/oct/15/books.booksnews).
L'età d'oro della scrittura di Christie viene fatta iniziare nel 1930, con The Murder at the Vicarage (La morte nel villaggio), il primo romanzo in cui fa la sua comparsa Miss Marple. Nel ventennio successivo l'autrice pubblicò circa due romanzi all'anno, tra cui Se morisse mio marito, Assassinio sull'Orient Express, Il Natale di Poirot, Dieci piccoli indiani, C'è un cadavere in biblioteca.
Immagine tratta da flickr.com
Sempre nel 1930 Christie si sposò una seconda volta, con l'archeologo Max Mallowan, che la portò con sé nel corso dei suoi viaggi: nei lunghi mesi passati - con sua grande gioia - presso gli scavi, ella poté contare su una semplice macchina da scrivere per produrre i capolavori ambientati nella morsa dell'aria assolata: Assassinio in Mesopotamia, Assassinio sul Nilo, Appuntamento con la morte e They Came to Baghdad (Il mondo è in pericolo), che è il primo romanzo di Christie che io abbia letto in assoluto, al mare, quand'ero bambina.
Con l'acquisto di Greenway House (solo una giornata troppo piovosa mi ha impedito di visitarla durante il mio viaggio in Conovaglia...) nel 1938, Agatha riprese a condurre una vita molto serena, fatta di partite a tennis, nuotate, feste con gli amici, tè pomeridiani e canzoni al pianoforte, e un sontuoso giardino.
Nel 1956 fu nominata Commander of the British Empire dalla Regina Elisabetta, e acquisì il titolo di Dame nel 1971; nel 1972 si festeggiarono i vent'anni sulle scene di Trappola per topi e nel 1974 ella fece la sua ultima apparizione pubblica, a Londra, per la premiere del film Murder on the Orient Express. Morì due anni dopo, non prima di aver pubblicato Curtain: Poirot's Last Case (Sipario: l'ultimo caso di Poirot), scritto durante i bombardamenti di Londra, e che giaceva da venticinque anni nel caveau di una banca.
 
 
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