28 ottobre 2018

The Master

Quassù fra i monti abbiamo goduto di un ottobre splendente, con i profili delle vette nitidissimi contro il cielo di cobalto e gli alberi di giorno in giorno più saturi d’oro, come un quadro di Klimt. Da ieri, con il mese agli sgoccioli e persino la fine dell’ora legale, siamo immersi nella pioggia, che durerà a lungo, intensa e persistente: domani le scuole resteranno chiuse. Ne ho approfittato per finire un libro che entra senza indugio nella mia lista dei preferiti, perché l’ho amato tantissimo; è riuscito (e non è talento di tutti i libri) a distaccarmi completamente dalla quotidianità e a trascinarmi nella realtà parallela – talvolta la più autentica – della pura letteratura. 
Questo libro è The Master, pubblicato nel 2004 dallo scrittore irlandese Colm Tóibín e tradotto in italiano da M. Bartocci per Bompiani. Il “maestro” è, parafrasando il titolo di uno dei suoi stessi racconti (The Lesson of the Master), Henry James, che per una volta è la creatura, il personaggio, il destinatario e non l’inspiratore dell’alito di vita della scrittura. Tóibín ci racconta un James straordinario, umanissimo, che svela (ma solo a sé stesso) la fatica della socialità e il gusto della solitudine: un uomo con la gola chiusa dai ricordi e dai desideri mai compiuti, dagli amori impossibili e dal rapporto osmotico con la narrazione e con le parole. In undici capitoli accompagniamo James dal gennaio 1895, l’anno del suo fallimento teatrale, all’ottobre 1899, fra le pareti confortanti della casa tanto adorata di Rye, nel Sussex («Amava i rituali del mattino, i libri familiari, le ore trascorse in solitudine e messe bene a frutto, il pomeriggio che scivolava via in bellezza»). 
La linea del tempo, tuttavia, s’intreccia e si srotola, con lunghe incursioni nella giovinezza di Henry e nella storia della sua famiglia, per poi tornare al presente della narrazione, sottolineando così la sua nostalgia e il senso pregnante che la sua scrittura è stata il risultato inesorabile delle sue esperienze e dei suoi incontri. Procedendo lungo le pagine, incontriamo una alla volta le figure che hanno lasciato le impronte più profonde sulla strada del romanziere: i fratelli e la sorella Alice, la cugina Minnie Temple (il modello per Milly in Le ali della colomba), gli artisti della colonia di espatriati americani a Roma (con lo scultore Henrik Andersen che pare la personificazione in vita di Roderick Hudson), i protagonisti dell’aneddoto che ispirò Il Carteggio Aspern, e le tante donne che, sfumatura dopo sfumatura, si sono addensate in Isabel Archer. Tra tutti loro, due nomi, due immagini, due vite più piene delle altre: Lily Norton e Constance Fenimore Woolson. 
Lamb House, l'ultima casa di Henry James.
Foto: IpsaLegit2007
Lily è una figura fugace, ma vivida e ricchissima, che mi ha emozionata perché fu la figlia di Charles Eliot Norton, grande amico di James e soprattutto di Elizabeth Gaskell, della quale la giovane portava il nome. Constance, invece, è il ricettacolo del non-detto e dell’incompiuto: affermata scrittrice a sua volta, strinse con James un’amicizia fuori dal comune, che all’epoca del loro soggiorno condiviso a Bellosguardo, nei pressi di Firenze, destò i commenti a mezza voce dei loro conoscenti. Donna indipendente, appassionata, Constance mise fine alla propria vita a Venezia – la tanto celebrata Venezia di James – gettandosi dal balcone della sua casa vicino al ponte dell’Accademia. Per qualcuno il suicidio fu la conseguenza dell’abbandono dell’amico, che non volle raggiungere Constance nel buio inverno della città sull’acqua. 
Per gli innamorati di Henry James come me, The Master è un libro importante, che in un certo senso annulla la distanza “reverenziale” che possiamo sentire nei confronti di questo scrittore perfetto: ce lo consegna in tutta la sua comune fragilità, come un amico di cui prenderci cura e da osservare in silenzio dalla stanza accanto, mentre lui se ne sta vicino alla finestra, «come per trovare nel giardino la parola o la frase che stava cercando, fra i cespugli e i rampicanti o la rigogliosa vegetazione di fine estate».

4 ottobre 2018

The Victorian and the Romantic

Parecchio tempo fa, girovagando su Twitter, sono venuta a conoscenza di un libro in preparazione: un romanzo della giovane ricercatrice Nell Stevens dal titolo Mrs Gaskell and Me. L’ho aspettato per mesi, e finalmente un paio di settimane fa il libro è arrivato nella cassetta della posta: ho scelto, semplicemente per la bellezza della copertina e per la rilegatura, l’edizione americana, che porta il titolo The Victorian and the Romantic, e ho iniziato immediatamente la lettura, lasciando persino da parte un altro paio di libri che tenevo sul comodino. 
The Victorian and the Romantic è una storia che viaggia su due binari, destinati tuttavia a incrociarsi: il resoconto di un periodo piuttosto rilevante della vita dell’autrice e il racconto della vacanza romana di Elizabeth Gaskell, e della tempesta di sentimenti che quel viaggio (molto presumibilmente) suscitò dentro di lei. A Roma Gaskell incontrò Charles Eliot Norton, il giovane critico d’arte e traduttore americano con il quale scambiò in seguito lettere piene di affetto, di profonde riflessioni e di luminosi ricordi, e leggendo quegli stralci di epistolario non è poi così improbabile pensare che la scrittrice nutrisse per lui qualcosa di più intenso di una semplice amicizia. 
I capitoli “autobiografici”, che narrano la vicenda personale e la storia d’amore di Nell, sono freschi, lievi e piuttosto divertenti: il ritratto dell’esperienza del dottorato di ricerca è perfettamente corrispondente al vero!, come quando leggiamo di come si svolgono le riunioni tra dottorandi (durante le quali spuntano immancabilmente le considerazioni di quei colleghi che pensano che il proprio percorso di ricerca sia l’unico valido, le cui premesse dovrebbero essere applicate agli studi di tutti gli altri) o quando Nell sostiene (e questa sensazione l’abbiamo provata tutti): “I feel as though I know even less than when I started” (p. 46). 
Di tutt’altro tono e intensità i capitoli dedicati a Elizabeth Gaskell, con la quale Nell si rammarica (esattamente come me) di non poter avere uno scambio epistolare: «I felt – still feel – a pang, something like lovesickness, when I think that Mrs Gaskell and I can’t write to each other. We would write such good letters, I think. We would have so much to say» (p. 48). In queste pagine il linguaggio si fa più dolce, a tratti quasi antico, come ad evocare la scrittura gaskelliana: di grande effetto l’episodio della processione di Carnevale, che Gaskell riporta in Delitto di una notte buia e di cui abbiamo una testimonianza anche in una lettera della figlia Meta (cfr. il mio Sui passi di Elizabeth Gaskell).
Il ritratto che Nell ci offre della sua “amica” Elizabeth è traboccante d’affetto; e io, che per alcune opere ho “prestato” ad Elizabeth la voce italiana e che sento con lei un legame fortissimo che trascende i confini del tempo, sono stata felice di percepire i miei stessi pensieri stampati sulla carta: «I had never encountered a writer who could fill a page so entirely with herself. Mrs Gaskell is […] brimming with love for the people around her. […] It oozes from those letters, that love: it reached me as soon as I began reading them» (p. 48). Sì, è proprio questa la sensazione che le lettere di Elizabeth Gaskell hanno suscitato in me: la percezione di una vitalità travolgente e di uno sconfinato amore per gli amici. Tra i tanti celebri incontri di Elizabeth Gaskell, gli espatriati anglo-americani di Roma godono di un’attenzione particolare in questo libro e uno dei capitoli finali è dedicato proprio a loro. La conclusione del romanzo è pregna di commozione: uno scrigno di delicatezza, di coscienza del tempo che passa, e infine della consolazione dell’immortalità dell’arte e dell’amicizia.