16 settembre 2015

Sette brevi lezioni di fisica

Non sono mai stata velocissima nell’apprendimento delle scienze, e al liceo la fisica in particolare era la materia che mi riusciva più difficile. Con gli anni, e soprattutto incontrando bravissime persone che si occupano di scienza tutti i giorni e che te la raccontano con un sorriso, ho iniziato a desiderare di capirne di più – spesso rimpiangendo di possedere solo scarsissime nozioni e di non aver mai approfondito i miei studi. 
Per questa ragione, appena ho sentito parlare di Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli nel corso di una trasmissione di Corrado Augias, sono corsa a leggerlo, sperando di mettere un po’ d’ordine nelle mie informazioni caotiche, e di gettare un po’ di luce su quelli che sono due misteri per me inspiegabili, eppure affascinantissimi: la sostanza dei buchi neri e l’esistenza di piani temporali paralleli. Per darmi delle risposte, naturalmente, non bastano “sette brevi lezioni”, ma forse “sette (volte sette) anni di studio”, ma a qualcosa questo librino è servito, grazie alla sua semplicità e chiarezza e anche a certi bei passi in cui il linguaggio diventa quasi poetico. È ammaliante leggere che una teoria della fisica «descrive un mondo colorato e stupefacente, dove esplodono universi, lo spazio sprofonda in buchi senza uscita, il tempo rallenta abbassandosi su un pianeta, e le sconfinate distese di spazio interstellare s’increspano e ondeggiano come la superficie del mare…», oppure: «Nel mare immenso di galassie e di stelle, siamo un infinitesimo angolo sperduto; fra gli arabeschi infiniti di forme che compongono il reale, noi non siamo che un ghirigoro fra tanti», oppure ancora: «Siamo fatti degli stessi atomi e degli stessi segnali di luce che si scambiano i pini sulle montagne e le stelle nelle galassie». 
Stupita del mio stesso interesse per questo libro, mi sono chiesta dove sia il punto in cui il mio amore per la letteratura incontra la fisica. Mi sono risposta con i versi di La ginestra di Leopardi che sembrano descrivere il cosmo (175-183): 
quegli ancor più senz’alcun fin remoti 
nodi quasi di stelle, 
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo 
e non la terra sol, ma tutte in uno, 
del numero infinite e della mole, 
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle 
o sono ignote, o così paion come 
essi alla terra, un punto 
di luce nebulosa.
E mi sono risposta ricordando come il mistero del tempo e della sua percezione impregni la letteratura di Virginia Woolf; e ripensando a quanto siano straordinari due romanzi che ho letto di recente, Amori imprevisti di un rispettabile biografo di Penelope Lively e Il tempo di una canzone di Richard Powers, in cui entriamo in contatto con la sostanza molle, elastica, liquida, amorfa e inafferrabile del tempo, che si adatta fluidamente ai contenitori del passato così come a quelli del presente. Questi libri accennano a una realtà che Carlo Rovelli ci spiega così: «Nessuno si sognerebbe di dire che le cose “qui” esistono, mentre le cose che non sono “qui” non esistono. Ma allora perché diciamo che le cose che sono “adesso” esistono e le altre no? Il presente è qualcosa di oggettivo nel mondo, che “scorre” e fa “esistere” le cose l’una dopo l’altra, oppure è solo soggettivo, come “qui”?» 
Insomma, ciò che avvicina la grande letteratura allo studio della scienza è soprattutto la spinta a porsi delle domande, a cercare nella natura e nell’uomo la risposta agli enigmi che riguardano la verità, la realtà, la probabilità, la libertà. Leggendo un romanzo di Virginia Woolf, per esempio, ci sentiamo proprio come Carlo Rovelli quando scrive: «Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l’oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la ricchezza del mondo, e ci lasciano senza fiato.» 

3 settembre 2015

La società letteraria di Guernsey

Quest’anno è benedetto da letture bellissime. Scorrendo i post di questi primi due terzi del 2015 mi accorgo di aver potuto godere di romanzi indimenticabili, molti dei quali sono andati ad aggiungersi alla lista dei miei preferiti in assoluto (qui). Sono stata molto fortunata: non c’è niente di meglio che sentirsi bene grazie ad un buon libro. 
L’ultimo gioiello, in ordine di tempo, è La società letteraria di Guernsey, unica opera di Mary Ann Shaffer (Sonzogno, trad. it. di Giovanna Scocchera). Lo inseguivo da diversi anni, da quando l’avevo scoperto, attratta dalla sua copertina, sugli scaffali del Salone del Libro di Torino nel 2012; quel giorno lo lasciai lì, per le mani e gli occhi di altri lettori, ma il desiderio di leggerlo era sempre rimasto vivo. E adesso so che c’era un’ottima ragione. È una storia epistolare, che proprio per questo, e per la sua dichiarazione d'amore alla lettura, all’inizio mi ha ricordato un altro librino al quale sono particolarmente affezionata, ovvero 84 Charing Cross Road di Helene Hanff (di cui ho scritto qui): i libri che raccontano la loro stessa genesi sono sempre affascinanti. 
La voce principale di La società letteraria di Guernsey è quella di Juliet Ashton, scrittrice e giornalista, che nel gennaio del 1946, per puro caso, inizia a intrattenere una felice corrispondenza con gli abitanti dell’isola di Guernsey (territorio britannico al largo della Normandia), venendo a conoscenza del loro stile di vita, del loro gruppo di lettura – intitolato alla “Torta di Patate” – e soprattutto dell’occupazione tedesca appena conclusa. Non se ne sente parlare di frequente, sui libri di storia o nei documentari, ma una piccola parte delle isole britanniche fu effettivamente invasa dall’esercito nazista: gli abitanti di Guernsey dovettero spedire via i loro bambini per proteggerli dall’invasione; dovettero sopportare per cinque anni la presenza dei soldati, le vessazioni e la privazione della libertà personale imposta dai tedeschi, e assistere alle stesse violenze e ai medesimi soprusi che travolsero l’Europa continentale negli orrendi anni del conflitto. 
Il tono del libro è pervaso da una delicatezza che, se possibile, è ancora più straziante di una voce cronachistica. I racconti dell’invasione sono riportati attraverso le lettere degli abitanti dell’isola – caratterizzati così bene che ci pare di averli seduti in salotto con noi: una signora erudita, un contadino silenzioso, una bizzarra signorina, un nonno amorevole, un maggiordomo tornato dai campi di concentramento, e una donna coraggiosa, scomparsa nel nulla, di cui tutti parlano con affetto. I resoconti tragici sono momenti di emozione profonda intrecciati ad aneddoti divertenti e lievi, a volte persino un po’ romantici. Torte di lamponi, arrosti di maiale, libri di poesie, letture di Jane Austen, biografie di Charles Lamb, coprifuoco, povertà, fame, sorrisi, pleniluni sul promontorio, profumi di mare e di fiori, francobolli, giocattoli di legno, ricordi: tutto è tenuto insieme, come l’amido di un impasto fragrante, dalla celebrazione della bontà umana, e delle semplici gioie dell’amicizia. Sul tram, ieri, ho dovuto chiudere il libro, perché si stava facendo davvero troppo commovente per continuare a leggerlo in pubblico….  «[Durante l’occupazione] ci aggrappammo ai libri e ai nostri amici: ci ricordavano che esisteva anche qualcos’altro. Elizabeth recitava spesso una poesia. Non me la ricordo tutta, ma cominciava così: “È davvero cosa di poco conto aver goduto del sole, aver vissuto la luce in primavera, aver amato, curato, apprezzato, conosciuto veri amici?” No che non lo è. Spero che se lo ricordi ovunque sia.»