21 luglio 2018

L'assassinio di Florence Nightingale Shore

Come da mia personale tradizione estiva (e anche natalizia) ho appena finito di leggere un giallo all’inglese, una pubblicazione recente che fa parte di un progetto editoriale piuttosto ambizioso. È L’assassinio di Florence Nightingale Shore di Jessica Fellowes (nipote di Julian Fellowes, l’autore di Downton Abbey), nell’edizione italiana Neri Pozza. Il libro, con una copertina eccezionale, è uscito lo scorso anno ed è il primo capitolo della saga The Mitford Murders, intitolata alle celebri sorelle Mitford, che con i loro vari talenti e le loro personalità (in seguito molto controverse), contribuirono allo scintillare della società londinese degli anni Venti. 
La vera protagonista di questo libro, però, non è Nancy Mitford (la più presente, tra tutte le sorelle, nella storia), ma un’altra giovane piena di intraprendenza, Louise, che dai bassifondi di Londra combatte per un futuro migliore e più virtuoso, affidandosi solo alle proprie forze, al proprio ingegno e alla propria morale: un bel personaggio, che comparirà anche nel prossimo romanzo della saga. L’uscita del secondo “omicidio Mitford” è prevista per il prossimo autunno: il titolo sarà Bright Young Dead, per parafrasare la diffusa definizione “bright young things”, appellativo  dei giovani della Londra di quegli anni – giovani bohémiens, festaioli, vestiti in modo eccentrico e spesso dediti all’alcol e alle droghe – che furono descritti nei romanzi della stessa Nancy Mitford (nota soprattutto per L’amore in un clima freddo), di Evelyn Waugh e di Anthony Powell. 
L’assassinio dell’infermiera Florence Nightingale Shore fu un evento reale, e un delitto irrisolto. Jessica Fellowes lo prende come spunto per iniziare la propria storia e ci costruisce intorno un mondo colorato e divertente, fatto di aristocratici annoiati e giovani donne in cerca di una strada da seguire, poliziotti coraggiosi e anime perdute a causa delle tragedie della Grande Guerra. Il libro è insomma una lettura leggera e piacevole, difficile da abbandonare in questi pomeriggi di vacanza, e che sicuramente invita ad accaparrarsi anche il prossimo capitolo, non appena sarà pubblicato.

18 luglio 2018

Virginia Woolf, mia zia

Leggere le biografie mi richiede sempre molto tempo. Un po’ perché sono corpose, d’altro canto perché procedo volutamente con lentezza, con la matita in mano, per non perdere i dettagli, non confondere i nomi dei personaggi che entrano, escono e ricompaiono in scena, per immaginarmi una mappa geografica dei luoghi, delle case, dei viaggi. Una biografia è il racconto di una vita, non la si può percorrere con distrazione. 
Ho dovuto aspettare l’inizio delle vacanze per portare a termine Virginia Woolf, mia zia di Quentin Bell (La Tartaruga edizioni, trad. it. di Marco Papi), iniziato alla fine dell’inverno e finora mai concluso per mancanza di concentrazione. È stata una lettura appassionante e vigorosa, compiuta con la consapevolezza sempre accesa del fatto che l’autore è un parente stretto del soggetto narrato, che con lei ha vissuto, parlato, riso, e che si pone nei suoi confronti con l’affetto del nipote, il rispetto del lettore, ma anche con l’obiettività del biografo. 
Il volume si divide in due parti e lo spartiacque è segnato dal 1912, anno del fidanzamento tra Virginia e Leonard Woolf. È l’evento che separa l’infanzia dall’età adulta, ma anche la fase di “preparazione” alla scrittura da quella della pubblicazione (The Voyage Out uscì nel 1915). In entrambe le sezioni Quentin Bell (il figlio della sorella di Virginia, Vanessa), traccia ritratti profondissimi della zia, esaminandone senza indugi la personalità complessa e la grande fame di conoscenza, descrivendone i tormenti, le sofferenze, la malattia, ma anche i momenti di allegria e di quiete. 
I capitoli familiari sono intensi e struggenti, per l’evocazione della figura della madre della scrittrice, Julia (sorella della fotografa Julia Margaret Cameron), per il racconto dell’istruzione impartita in casa, delle rivalità tra fratelli, delle visite dei grandi nomi a Leslie Stephens (tra cui Henry James), dei viaggi in Cornovaglia – per sempre il paradiso di Virginia. Talland House, a St. Ives, la casa di villeggiatura della famiglia, è così descritta: «Accanto al cancello c’era una specie di siepe di escallonia e al di là del giardino, tutto un saliscendi sul pendio ondulato, con un’infinità di praticelli, di cespugli, di nascondigli privati; […] e oltre il campo di cricket, il mare. […] La regata annuale, la sabbia, le pozze d’acqua tra le rocce con gli anemoni di mare che fiorivano sotto i pesci guizzanti, la grande baia con le vele e le navi a vapore […]. E poi c’erano la panna della Cornovaglia, il venditore di focacce calde […] – e tutta la pienezza, la felicità di quella vita». 
Con la morte della madre (che è la signora Ramsay di To the Lighthouse), è come se una luce si spegnesse nella vita di Virginia. Il padre è un uomo difficile, la pace della casa è violata dalle molestie del fratellastro, Vanessa sviluppa un senso di autonomia che la allontana dal nucleo familiare, e la maturità si presenta presto a reclamare il suo tributo. La seconda parte del libro, con il racconto delle vicende editoriali, talora strazianti, talora gloriose, dei grandi incontri personali e artistici (Katherine Mansfield, T.S. Eliot, Edward Morgan Forster, Roger Fry, Aldous Huxley, Vita Sackville West e infiniti altri) e dei faticosi incontri con la politica, è infarcita di lettere e di brani di diario, che testimoniano gli eventi epocali di quegli anni, come la prima guerra mondiale, e quelli più intimi, come gli amori di Virginia o l’acquisto di Monk’s House a Rodmell. Il biografo descrive la scrittrice, negli anni Venti, come «lineare, elegante, composta. […] era nel movimento che Virginia rivelava realmente se stessa. […] La sua conversazione era punteggiata di esclamazioni di sorpresa, di domande imprevedibili, di fantasie e di risate, l’allegra risata del bambino che trova il mondo più strano, più assurdo e più bello di quanto chiunque altro possa immaginare. Pareva che il riso in quegli anni fosse il suo elemento naturale». 
Il salotto di Monk's House.
Fonte: Wikimedia Commons
Non è certo questo il ritratto più diffuso di Virginia Woolf. Ancora oggi è più frequente rappresentarla come una donna malata e una scrittrice difficile, e della sua vita si ricorda soprattutto la fine, e la scelta del suicidio (che segna l’ultima pagina di questa biografia), probabilmente determinata dal ripresentarsi della malattia e dall’ora più buia della seconda guerra mondiale, con gli aerei tedeschi sopra la testa e il terrore dell’invasione. Tuttavia, anche e soprattutto dopo questa lunga lettura, a me piace ricordare la Virginia della luce – la luce del faro, della rivendicazione dei diritti delle donne (A Room of One’s Own), dei fiori della signora Dalloway, del funambolismo di Orlando, degli episodi di Night and Day e The Years, delle passeggiate londinesi e dei colori vividi e trascinanti della cucina, dei diari di viaggio, del giardino e degli arredamenti di Monk’s House.