29 gennaio 2014

La cantina

Lo spunto per questo lungo monologo senza respiro viene al suo autore, Thomas Bernhard, da una notizia pubblicata sul giornale, la quale recita che le autorità di Salisburgo hanno deliberato la demolizione del malfamato quartiere di Scherzhauserfeld. Di qui viene rievocata una parentesi di vita tardo-adolescenziale che ha significato per l’autore una autentica svolta, dalla infelicità cronica alla speranza del compimento del proprio io. La risoluzione intrapresa è più volte descritta sotto forma di facili ed esplicite simbologie, come il dietrofront nella Reichenhalle Straße, e soprattutto acquista potenza linguistica nella reiterazione delle parole “nella direzione opposta”. Scherzhauserfeld, “Salzburger Volksblatt”, è infatti nella direzione opposta rispetto a qualunque aspetto della vita insoddisfatta del giovane: non è “lontano, ma proprio nella direzione opposta” rispetto alla casa del consigliere governativo (l’autorità) e rispetto al ginnasio (le istituzioni), cioè alla cultura intesa come sciorinamento di nozioni adatte solo a “macchine per imparare”. La cantina del signor Podlaha rappresenta il contrario di tutto ciò che è “bene”, in un mondo sbrindellato che è sopravvissuto alla guerra solo per soccombere ad una fine ancor meno dignitosa. Il popolo di Scherzhauserfeld, ridotto alla fame e all’emarginazione, è accomunato dal medesimo destino di alcool, di delitti, di fallimenti e di suicidi, e quegli edifici macilenti sono costruiti solo “al fine di distruggere e compromettere coloro che vi abitavano, e nella [loro] monotonia e laidezza ogni animo sensibile quale che fosse non poteva che guastarsi e spegnere e perire”. È il contatto impietoso con questa anticamera dell’inferno a risvegliare nel giovane il senso della propria utilità, che il ginnasio aveva soffocato. Nel ritmo concitato del lavoro alla cantina, sommerso perpetuamente dalla cose “da fare”, eppure sempre disposto ad ascoltare le stremate voci della guerra e i silenzi di chi invece non vuole ricordare – e se ne va dalla cantina, più mutilato nel cuore di tutti gli altri – egli può darsi un po’ di pace, dimenticare la sua orrida esistenza casalinga, dimenticare l’urlo dello smarrimento epocale che lascia franare tutto intorno a sé. Ma nessuna felicità alberga in queste righe. Neppure quando ricorda le sue lezioni di canto, sebbene esse fossero così importanti per lui. Il narratore corre – con un linguaggio spesso frenetico, talvolta esausto, ma incapace di riposo – verso la stesura dell’ultimo messaggio, tanto laconico quanto brutale: “Tutti qualche volta alziamo la testa credendo di dover dire la verità o quella che sembra la verità, e poi di nuovo la incassiamo nelle spalle. Questo è tutto”.