L’arrivo dell’autunno, con la pioggia di foglie che inondano
il viale vicino a casa, ha risvegliato in me il desiderio di rileggere Keats.
La sua ode alla stagione, “To Autumn”, è un vero inno alla bellezza e al
trionfo dei sensi che questo periodo dell’anno riserva a chi, come me, ha poca
confidenza con l’estate, malsopporta la sua sciocca immobilità, e non aspetta
che il ritorno dei venti freddi e talvolta persino della pioggia di perla delle
sere d’ottobre. Ascoltate la versione inglese accompagnata da questo bellissimo video:
“Stagione di nebbie e di morbida abbondanza,/ Tu, intima
amica del sole al suo culmine,/ Che con lui cospiri per far grevi e benedette d’uva/
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,/ Tu che fai piegare sotto le
mele gli alberi muscosi del casolare,/ E colmi di maturità fino al torsolo ogni
frutto;/ Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme/ I gusci di
nocciola e ancora fai sbocciare/ Fiori tardivi per le api, illudendole/ Che i
giorni del caldo non finiranno mai.”
L’edizione da cui ho tratto questa traduzione è uno dei
libri più amati sul mio scaffale (regalatomi in un’occasione speciale): le Poesie con testo originale a fronte
tradotte e curate da Silvano Sabbadini (Arnoldo Mondadori). La copertina di
questo volume, che rappresenta un particolare da The Fighting Temeraire di J.M.W. Turner, si accompagna bene, in
tutto il suo fulgore, al quarto di copertina, dove il curatore commenta la
propria presentazione del “breve e intensissimo arco della produzione
keatsiana, riflettendone, fin nelle pieghe più segrete, la mutevolezza
lessicale e metrica, la continua germinazione di immagini, la ricchezza
speculativa.”
Ed il linguaggio di Keats è davvero colmo di musica e di
visioni. Egli intendeva la poesia come evasione sensuale e ideale dalla realtà,
che allora (come oggi…) era soggetta ad una pressione storica e sociale greve e
per molti insopportabile. Data la difficoltà di vivere il presente, Keats evoca
una poesia che lo rifiuta, che lo oblia, e che attraverso il potere della
memoria (“Credo che la poesia dovrebbe […] sembrare quasi una Rimembranza”) tende
invece a ricongiungersi con un passato che è quello della collettività, quello
cioè del lettore stesso. Questo è il principio che governa “Ode on a Grecian
Urn”:
Un esempio di pittura preraffaellita: The Lady of Shalott di J.W. Waterhouse (1888, Tate Gallery, Londra) |
“Oh, forma attica! Posa leggiadra! con un ricamo/ D’uomini e
fanciulle nel marmo,/ Coi rami della foresta e le erbe calpestate –/ Tu, forma
silenziosa, come l’eternità/ Tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda
pastorale!/ Quando l’età avrà devastato la nostra generazione,/ Ancora tu ci
sarai, eterna, tra nuovi dolori/ Non più nostri, amica all’uomo, cui dirai/ ‘Bellezza
è verità, verità bellezza,’ – questo solo/ Sulla terra sapete, ed è quanto
basta.”
L’appello di quest’ultima strofa dell’Ode all’urna greca è un
messaggio di altissimo valore estetico, che in seguito rese prezioso Keats a
Pater, Swinburne, Tennyson, Wilde, e ai Preraffaelliti. La poesia, l’arte, sono
considerate nella loro autonomia, nella loro assolutezza, e dunque nella loro
immortalità. La voce del poeta ha il potere di celebrare la dea Psiche, sua
musa, oltre ogni tempo, e oltre la distruzione operata dalla realtà.
Si legge
in “Ode to Psyche” (di straordinaria bellezza):
La tomba di Keats al cimitero acattolico di Roma. Vi si legge: "Qui riposa uno il cui nome è scritto nell'acqua". Foto di Mara Barbuni (2001) |
“Oh, tu, ultima nata visione, più dolce/ Sei di tutta la
svanita gerarchia dell’Olimpo,/ […]/ Tu, la più bella sei, pur se tempio non
hai,/ Né altare colmo di fiori,/ […]/ Pure, anche in questi giorni tanto
lontani/ Dalle fedi felici, le tue ali lucenti/ Che volteggiano tra gli olimpi
in rovina io vedo,/ E canto, ai miei soli occhi credendo./ Sì, lascia sia io il
tuo coro e il pianto/ Alzato per la tua mezzanotte,/ Lascia sia io la tua voce,
il tuo liuto, il tuo flauto,/ […]/ Voglio essere io il tuo sacerdote, e
costruirti un tempio/ Nelle inesplorate regioni della mia mente,/ Dove ramosi
pensieri, appena nati con piacevole dolore,/ Mormoreranno al vento sostituendo
i pini:/ E lontano lontano, di vetta in vetta, macchie oscure d’alberi/
Vestiranno tutto intorno i gioghi selvaggi dei monti/ […]/ Per te sarà lì ogni
dolce piacere/ Che l’ombroso pensiero può conquistare,/ Una torcia splendente,
una finestra aperta alla notte/ Perché caldo l’amore vi possa entrare.”
John Keats riempì la sua poesia di una dimensione sognante
che la vita reale gli negò sempre. La sua esistenza piena di lutti e tormentata
dalla tisi si chiuse dopo appena ventisei anni, nella sua casa in Piazza di
Spagna. Vedere questa residenza (oggi è una casa-museo che contiene ricordi,
lettere autografe, manoscritti, quadri, stampe e più di 8000 volumi) è un’esperienza
ricca di sensazioni, di commozione e di nostalgia, giusta e necessaria premessa
alla visita al Cimitero Protestante di Roma, dove Keats riposa sotto l’ombra e
il mormorare degli alberi, cullato forse dalla sua Psyche, in ascolto forse
della pura voce della poesia.