25 ottobre 2020

Dall'estate all'autunno

Il passaggio dall’estate all’autunno, con l’inizio della scuola e tutte le ulteriori difficoltà (sempre più serie) connesse a quest’evento, mi ha travolta, e pur continuando a leggere molto, anche se con meno regolarità, sono riuscita a scrivere poco. In quest’ultimo mese e mezzo, però, posso dire di aver scoperto almeno tre libri importanti.

Il primo è stato Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (Adelphi) di Stefan Zweig. Pubblicato per la prima volta nel 1941, il libro è il memoriale di un esule, ebreo austriaco, che ha attraversato le fasi più gloriose e quelle più tragiche della Mitteleuropa: dai fasti della Vienna imperiale con i suoi ideali di progresso sconfinato, di pace e di comunione degli stati europei, attraverso le cadute della Grande Guerra, fino alla catastrofe del nazismo, della fuga, della perdita della patria e dell’identità. È un libro che dovrebbe diventare una lettura obbligatoria nelle scuole, non solo perché è la testimonianza oculare di come l’umanità sia riuscita a rinnegarsi, prossima al suicidio, nel Novecento, ma anche perché rivela un senso insopprimibile di resistenza, nella forma della devozione alla libertà interiore. Nella prima parte di questa autobiografia colpisce, in particolare, lo straordinario livello di cultura delle giovani generazioni, che non solo conoscevano perfettamente i classici, ma riuscivano a interessarsi alle avanguardie e alle espressioni artistiche che giungevano dall’estero, e coltivavano contatti che oggi ci sembrano incredibili, partecipando in prima persona alle belles lettres del loro paese. Il rapporto tra studio e libertà, quindi, si manifesta in tutto il suo valore: ed è questa la ragione principale per cui Il mondo di ieri andrebbe consigliato ai ragazzi e alle ragazze che frequentano la scuola superiore. 

Anche il romanzo La biblioteca di Parigi di Janet Skeslien Charles (Garzanti) racconta di come i libri possano offrirci una forma di salvezza, persino nelle circostanze più disperanti. La protagonista, Odile, è una giovane borghese della Parigi “città aperta” occupata dai nazisti, che lavora come bibliotecaria alla American Library e impara a riconoscere nei libri, e nel sistema di catalogazione Dewey, una fonte di speranza per sopravvivere alla sciagura di un popolo, di una nazione e di tutto il mondo. Come ha affermato l’autrice nell’intervista contenuta nell’edizione italiana del romanzo, l’idea per la scrittura è stata ispirata dai “bibliotecari che, contro tutto e contro tutti, hanno deciso di tenere aperta l’American Library durante la guerra. Credevano nell’importanza dello spirito comunitario e nella capacità dei libri di unire e di creare ponti”. 

Il terzo libro di queste settimane, che ho finito proprio stamattina, è stato L’età incerta di Leslie Hartley (Neri Pozza), che vanta uno degli incipit più riusciti di tutta la letteratura: “Il passato è una terra straniera; fanno le cose in modo diverso lì”. Come suggerisce questa apertura così memorabile, il libro è il racconto in prima persona di eventi avvenuti cinquant’anni prima, quando il protagonista e narratore era un ragazzino di dodici anni, nell’anno 1900.
Dopo brevi episodi risalenti al periodo della scuola, il nucleo della storia si rivela essere il resoconto di una vacanza trascorsa a casa di un amico, Brandham Hall, nel Norfolk, durante la quale Leo apprende l’esaltazione e insieme i dolori della crescita, perennemente confuso tra le sconcertanti emozioni di quel periodo della vita: l’innocenza e la brama di conoscenza, l’indifferenza e la gelosia, la paura e la voglia di indipendenza, l’amore sacro e l’amore profano. I pensieri di Leo sono riportati con tale vividezza che sembra di leggere, più che il resoconto di un ricordo, un flusso di coscienza, del quale percepiamo continuamente la natura perturbante. La stessa voce narrante pare inquieta, ritrosa, di fronte ai propri stessi ricordi e i personaggi della sua storia, che hanno condiviso con lui il dramma di quell’estate rovente: “erano come figure di un quadro, chiuse dentro la doppia cornice dello spazio e del tempo e incapaci di uscirne: erano prigionieri di Brandham Hall e dell’estate del 1900. Volevo che rimanessero lì, fermi in quelle due dimensioni: non volevo liberarli”.

7 settembre 2020

The Bookshop, di Penelope Fitzgerald

Nei giorni scorsi mi sono imbattuta in un film che mi è piaciuto molto, La casa dei libri (in originale La librerìa) diretto dalla regista spagnola Isabel Coixet. Guardandolo ho riconosciuto i tratti di un libro comprato un paio d’anni fa e però rimasto sullo scaffale, come spesso accade quando gli impegni della vita quotidiana impediscono di mettere ordine fra le cose più importanti – cioè, le letture. Cercando qualche rapida informazione online ho avuto conferma che in effetti il film è tratto da The Bookshop di Penelope Fitzgerald (1978; pubblicato in italiano da Sellerio nel 1999), così, approfittando della coincidenza, ho deciso finalmente di leggerlo.

L’esperienza è stata molto bella. Il libro racconta la storia di Florence Green, una vedova che alla fine degli anni Cinquanta decide di aprire una libreria in una vecchia casa abbandonata di un villaggio sul mare nel Suffolk, suscitando la diffidenza, se non l’aperta ostilità, dei concittadini. Ci si affeziona subito al personaggio di Florence, in parte per la sua ingenuità nell’affrontare i rapporti sociali, e soprattutto per la sua determinazione nel gestire il negozio, che rappresenta non solo una fonte di sostentamento economico, ma la sua stessa identità di essere umano: “Recentemente si era ritrovata a domandarsi se non fosse suo dovere rendere chiaro a sé stessa, e possibilmente anche agli altri, che aveva tutto il diritto di esistere come persona”. È un principio arduo da affermare per una donna, e specialmente a metà del secolo scorso, e in particolare se si è deciso di mettere la gente di fronte alla sua stessa necessità – naturale, eppure da molti negata – di scegliere i libri come compagni della propria esistenza. I personaggi che l’autrice affianca a Florence sono dotati di una spiccata umanità, che si traduce anche e soprattutto nelle loro debolezze: la malignità delle pettegole di Hardborough, la subdola pigrizia di Milo North, l’opportunismo della signora Gippings, la meschina fame di potere di Mrs Gamart e l’arrendevolezza di suo marito. Di tutt’altra levatura, invece, il vecchio Edmund Brundish, un uomo che vive isolato nella sua grande casa e il cui tempo gira tutto intorno ai libri, che stringe con Florence un’intensa, benché troppo breve, amicizia letteraria. Nel film, l’interpretazione di Bill Nighy è straordinaria perché ci mostra chiaramente la descrizione che la scrittrice ci dà del suo personaggio: “Le sue emozioni, per mancanza di allenamento, erano quasi completamente scomparse”. 

Come scrive la sua biografa Hermione Lee nella Prefazione alla mia edizione del romanzo: “La visione del mondo [di Penelope Fitzgerald] era divisa tra ‘sterminatori’ e ‘sterminati’. Era solita dire: ‘Mi sento attratta dalle persone che sembrano essere nate sconfitte o profondamente perdute’. Era un’autrice ironica, con un tragico senso della vita”. Eppure, e nonostante tutto ciò che accade e che porta alla conclusione della storia, The Bookshop sembra offrire uno spiraglio di redenzione e di gioia, che è offerto proprio dai libri e che l’autrice rappresenta nel suggestivo episodio in cui Florence dispone in negozio la propria merce: “Anche se le era stato insegnato che non si guardano mai i libri mentre si sta lavorando, ne aprì un paio – vecchie edizioni Everyman, con le copertine sbiadite color oliva e i caratteri dorati”. Ed è Florence stessa a dichiarare, in una lettera al suo reticente avvocato, quale sia il significato della letteratura nella nostra vita: scrive che un buon libro è linfa vitale, di cui fare tesoro per spingere la vita oltre sé stessa, e che per questo si deve considerare “un prodotto di prima necessità”. Una definizione da non dimenticare, in questi nostri tempi difficili in cui il bisogno di bellezza e di istruzione è così dolorosamente sottovalutato.

17 agosto 2020

The Secrets We Kept, di Lara Prescott

The Secrets We Kept (edizione italiana DeA Planeta, con il titolo Non siamo mai stati qui), uscito l’anno scorso, è il romanzo d’esordio della scrittrice americana Lara Prescott. L’ho letto nell’arco di due giorni, perché è un libro appassionante, non sempre semplice da seguire per la continua fluttuazione della voce narrante, ma che alla fine delle sue oltre quattrocento pagine riallaccia tutti i fili della trama e lascia al lettore le sue soddisfazioni. 
The Secrets We Kept è la storia di tre donne e di un libro. Il libro è Il dottor Živago, il monumentale romanzo sulla guerra civile che seguì alla Rivoluzione d’Ottobre, che segnò la vita e il destino del suo autore, Boris Pasternak. La tormentata storia della pubblicazione di Živago è nota ed è stata oggetto di innumerevoli studi e articoli: terminato a metà degli anni Cinquanta, fu rifiutato da tutti gli editori russi a cui si erano rivolti Pasternak e la sua amante Olga (che fu la sua musa, il modello per Lara, nonché una sorta di agente letterario). Il testo fu consegnato dall’autore a Sergio D’Angelo, collaboratore di Giangiacomo Feltrinelli, che andò a prenderselo di persona nella dacia di Pasternak, lo trasportò in segreto nel settore occidentale e lo fece giungere a Milano, dove fu stampato e pubblicato nel 1957 con traduzione di Pietro Zveteremich. 
Le tre donne del romanzo di Prescott sono la stessa Olga e due impiegate dell’Office of Strategic Services statunitense – insomma, due spie – che a diverso titolo vengono coinvolte nell’operazione di reintroduzione del romanzo in Unione Sovietica. Il dottor Živago, infatti, che grazie al film che ne è stato tratto è rimasto nell’immaginario collettivo come una travolgente storia d’amore e che contribuì massicciamente all’assegnazione del Premio Nobel per il suo tragico ritratto di un’epoca di repressione e di sangue (Pasternak fu costretto dal governo a rifiutare il riconoscimento), fu anche un’efficace arma politica negli anni della Guerra Fredda: i servizi segreti del blocco occidentale se ne servirono come strumento di propaganda, facendolo rientrare di nascosto, e in lingua originale, nella patria in cui era stato censurato. Irina e Sally, le due spie di The Secrets We Kept, sono due delle pedine implicate nell’operazione, ma sono anche due riusciti personaggi femminili per cui Prescott inventa una storia del tutto personale, drammatica e, in qualche modo, storicamente doverosa. 
Olga Ivinskaya e Boris Pasternak
(immagine: pasternak-trust.org)
Di Olga Ivinskaya, la figura storica del terzetto, esistono diverse biografie (tra cui quella della pronipote dello scrittore, Anna Pasternak, che ha intentato causa contro la Penguin Random House per le eccessive somiglianze con il proprio libro dei capitoli dedicati a Olga in The Secrets We Kept). Tuttavia, il romanzo di Prescott, anche grazie all’uso della prima persona, ha il pregio di offrirci sprazzi notevolmente vividi della vita di Olga, della sua passione per Boris e delle disumane conseguenze a cui la donna si votò per amore di Pasternak. Gli anni trascorsi nel gulag a causa del “pensiero antisovietico” legato alla sua relazione con lo scrittore occupano la prima parte del libro attraverso l’uso di un linguaggio e di immagini che non fanno sconti, che ci impongono la loro durezza, com’è giusto che sia. 
Dicevo in apertura che in The Secrets We Kept, che intreccia la realtà storica alla finzione, la voce narrante in prima persona cambia continuamente. Se all’inizio questo espediente rischia di disorientarci, proseguendo con la lettura ci si abitua a entrare di volta in volta, di capitolo in capitolo, nei panni di questa voce sempre differente, che può essere quella di Olga, o quella di Sally, o quella di Irina, oppure – e questo è un dettaglio che ho apprezzato in particolare – la voce collettiva delle cosiddette “dattilografe” dell’Office of Strategic Services: un gruppo di donne laureate, ambiziose e preparate, che pur essendo titolate a una carriera nei Servizi, sono relegate alla macchina da scrivere, senza aver mai la possibilità di esprimere un’opinione. 
Queste donne, che i loro capi vogliono mantenere in una condizione di invisibilità, passano apparentemente l’intera giornata a scrivere e a chiacchierare a bassa voce; ma la verità è che ascoltano, osservano, vivono e sono a conoscenza di ogni cosa, regalandoci un punto di vista corale che rende ancor più intenso questo racconto, fino alla sua ultima pagina.

15 agosto 2020

Webinar: "A casa con Jane Austen"

Cari lettori di Ipsa Legit, la scorsa primavera, durante l'isolamento, ho preparato per la Jane Austen Society of Italy un webinar (seminario in rete) in sei puntate intitolato In casa con Jane Austen

In ognuno dei sei capitoli del seminario ho tentato di esplorare il significato della casa nella biografia e, soprattutto, nelle opere della scrittrice, prendendo spunto dal mio libro Le case di Jane Austen (pubblicato da flower-ed nel 2017). 

Oggi, approfittando dell'estate e della festività, metto anche a vostra disposizione il link alle sei puntate del webinar, sperando che possano essere un gradevole passatempo per trascorrere quest'ultima parte di agosto (che siate al lavoro, in vacanza, oppure a casa). 

Potete accedere alla playlist delle sei puntate cliccando qui: 
https://www.youtube.com/playlist?list=PLb1WomCWAlKxfGAC_MZI8DklXzb9MRgxB

Buona visione! 

8 agosto 2020

The Jane Austen Society, di Natalie Jenner

Come ormai d’abitudine, le mie estati sono anche dedicate alla costruzione di un nuovo numero di Due pollici d’avorio, la rivista della Jane Austen Society of Italy. Per la nuova uscita, prevista il prossimo ottobre, ho scritto due articoli, ho elaborato un paio di rubriche e per collaborare a uno dei pezzi che vi saranno contenuti (sul quale non posso rivelare niente, ma è una grande sorpresa!) ho letto The Jane Austen Society di Natalie Jenner, pubblicato da St. Martin’s Press lo scorso maggio. 

Questo romanzo, che non intende riportare fatti storici, racconta la nascita della prima associazione dedicata a Jane Austen e lo fa mettendo in scena otto personaggi di incredibile spessore, che si riuniscono in virtù del loro comune amore per la scrittrice; il centro della narrazione è Chawton, dove il gruppo di ammiratori intende tentare di acquistare il cottage per evitarne la caduta in rovina e onorare la vita e le opere dell’autrice. L’aspetto più allettante del libro sono, naturalmente, i continui riferimenti a Austen: ai suoi personaggi, alle sue storie, alla straordinaria eredità che ha lasciato ai posteri e al legame – per qualcuno incredibile, magari intangibile, ma nello stesso tempo indistruttibile – che i lettori sentono con lei. In particolare, gli otto membri della Jane Austen Society sono entrati in sintonia con la scrittrice e tra loro in virtù di una sofferenza intima e lacerante che tutti hanno vissuto, ma dalla quale hanno trovato, in qualche modo (e anche grazie alla letteratura), il modo di riaversi. 
Questo libro è una storia di recupero, di guarigione, di capacità di assorbire il dolore, di appropriarsene, e dunque di rialzarsi. Traduco solo uno dei passaggi che ho sottolineato, che sono davvero numerosi: “Durante la Grande Guerra, i soldati colpiti da stress post-traumatico erano stati incoraggiati a leggere in particolare Jane Austen – Kipling aveva affrontato il lutto per la perdita del figlio morto al fronte leggendo i libri di Austen ad alta voce alla sua famiglia, ogni sera – Winston Churchill li aveva usati di recente per superare la Seconda Guerra Mondiale. Adeline e il Dr. Gray avevano sempre amato la scrittura austeniana e potevano parlare per ore dei suoi personaggi; i suoi libri, oggi, alleviavano anche il loro dolore. […] Parte del conforto che ne traevano era l’eroismo della stessa Austen, che scrisse mentre era malata e disperata, guardando in faccia la propria morte precoce. Se ce l’aveva fatta lei, pensavano Adeline e il Dr. Gray, potevano farcela anche loro”. 
Adeline, il dottor Gray, Adam, Evie, Frances Knight: i personaggi del romanzo di Natalie Jenner , che decidono di fondare una società letteraria per salvare un'eredità che è patrimonio di tutti, sembrano creature reali, con le loro segrete angosce, la loro paura di vivere, il rimpianto, la difficoltà di aprirsi al mondo, la ribellione a un sistema sociale impietoso. Il magnete che li attrae verso lo stesso punto è Jane Austen, è il cottage di Chawton: e forse è soprattutto la necessità, che ci rende umani, di ritrovarci in una comunità, per affrontare così il futuro con più coraggio e più speranza.

Letture di un viaggio in Sicilia

In queste settimane, come sempre avviene d’estate, sto leggendo molto. Sto leggendo in modo piuttosto disordinato, scegliendo solo i titoli che mi suggerisce l’istinto, o che mi sono ispirati dalle uscite o dalle occasioni speciali. Tra i vari libri che mi hanno fatto compagnia ci sono stati L’inverno più nero di Carlo Lucarelli (Einaudi: una delle indagini del suo commissario De Luca, che ha il particolare pregio di mostrarci la più oscura ruvidezza di una Bologna in mano al nazifascismo) e, a un polo decisamente opposto, Fragole selvatiche di Angela Thirkell (Astoria: una specie di commedia romantica dell’Inghilterra del primo Novecento, notevole più che altro per la vividezza del ritratto dei rapporti sociali e per certi picchi di ironia). 
Lo scrittoio di Salvatore Quasimodo a Modica
Come succede con ogni viaggio, una vacanza in Sicilia mi ha offerto tantissimi spunti di ispirazione per nuove letture. Ho iniziato con un grande classico, che dopo aver semplicemente sfiorato al liceo (nella forma di un paio di brani tratti dall’antologia) non avevo più ripreso in mano: mi riferisco, naturalmente, al sontuoso Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Tra i vari passi che ho segnato sulla mia edizione Feltrinelli, acquistata per l’occasione in una libreria di Noto, una descrizione del giardino della dimora del Principe, tanto diversa dai giardini più freddi e pieni di vitalità a cui mi hanno abituata le mie letture inglesi: “Nel fondo una flora chiazzata di lichene giallonero esibiva rassegnata i suoi vezzi più che secolari; ai lati due panche sostenevano cuscini ravvoltolati e trapuntati, anch’essi di marmo grigio, e in un angolo l’oro di un albero di gaggìa intrometteva la propria allegria intempestiva. Da ogni zolla emanava la sensazione di un desiderio di bellezza presto fiaccato dalla pigrizia”. 
Tra le varie tappe del tour della regione ho avuto l’opportunità di visitare due fondamentali siti della letteratura italiana: la villa di Luigi Pirandello, appena fuori Agrigento (con il suggestivo angolo del parco dove il tronco di un pino sorveglia le ceneri del drammaturgo), e l’ancor più attraente casa natale di Salvatore Quasimodo a Modica. In questa piccola dimora abbarbicata in cima alla scalinata che sale dal centro della città barocca ci si muove a stento: sono tre stanze, ma sono dense del senso della scrittura. Lo studio, in particolare, ha come assorbito il lavoro del poeta, e sullo scrittoio imbevuto della luce che passa dalle finestre la macchina da scrivere, la penna, il calendario e le boccette d’inchiostro ben allineate hanno l’aria di racchiudere il segreto della fatica della letteratura. Sul tavolo sono stati sistemati anche i libri degli autori che Quasimodo ha contribuito a rendere celebri nel nostro paese grazie alle sue traduzioni: spiccano i lirici greci e Shakespeare, infilati con ordine in un portadocumenti. 
Un’ultima corrispondenza letteraria l’ho cercata l’ultimo giorno del viaggio, tornando verso Catania: sotto un sole rovente sono scesa al porto di Aci Trezza, dove gettava l’ancora la Provvidenza dei Malavoglia, e sono poi salita alla loro leggendaria casa del nespolo.

Aci Trezza, il porto (in alto: la casa del nespolo)

20 giugno 2020

I Goldbaum

Nella mia città ai piedi delle montagne i pomeriggi sono spesso grigioperla e freschi di pioggia. Non c’è niente di meglio di un temporale estivo per immergersi completamente in un buon romanzo: negli ultimi tre giorni io ho scelto I Goldbaum (House of Gold) di Natasha Solomons, pubblicato in italiano nel 2019 da Neri Pozza, con traduzione di Laura Prandino. I Goldbaum è la storia di una famiglia unica nella sua specie, che ha disegnato la macrostoria dell’Europa nella transizione tra Otto e Novecento: per scriverla, l’autrice ha tratto dichiaratamente ispirazione dalle vicende dei Rothschild, dinastia di origine ebraica che affondò le proprie radici in Germania, Austria, Francia, Napoli, Svizzera e Inghilterra e con la fondazione di banche sparse per l’Europa e grande talento per la finanza, diede forma economica, nonché respiro culturale, all’intero continente. 
Il libro si legge fluidamente, perché è scritto (e tradotto) in una lingua che è puntuale e ricca di dettagli, ma allo stesso tempo liscia e molto godibile. Ciascuna delle sue sezioni, che abbracciano un arco temporale compreso tra il 1911 e il 1917, riserva diversi motivi di interesse: dal sacro legame tra i vari rami della famiglia all’enumerazione delle loro ricchezze, dalla descrizione delle loro tradizioni al loro coinvolgimento negli affari finanziari e politici dei governi europei, dalla trattazione delle loro debolezze alla disamina del loro rapporto con se stessi. I personaggi maschili, anche quelli che passano sulla scena solo parzialmente, sono rotondi e reali: il viennese Otto Goldbaum, con il suo incrollabile spirito di servizio, contrasta fortemente con il cugino Henri e il suo gusto tutto parigino per la modernità; e gli inglesi Albert e Clement Goldbaum rappresentano una coppia distintamente novecentesca, in cui il primogenito è, storicamente e letterariamente, un inetto che non sa far altro che lasciare ogni responsabilità al fratello minore. 
Un altro aspetto importante di questo romanzo è la presenza femminile, che si moltiplica in personaggi secondari ma non minori, come Lady Goldbaum o la giardiniera Withers, ma sicuramente si raddensa nella figura di Greta, l’austrica nata Goldbaum e sposata a un Goldbaum inglese, che incarna la transnazionalità del cognome che porta. Greta è stata una bambina vivace e una ragazzina ribelle e anche da moglie quasi aristocratica non permette al mondo di darla per scontata: di lei questa storia ci racconta la bellezza, le trasgressioni, le sofferenze, ma è nella sua relazione con lo spazio che la circonda che ci vengono offerte le sue immagini più vivide e indimenticabili. In particolare, nei primi anni del suo critico matrimonio d’interesse, Greta è insofferente alla vita chiusa e regolata dalle decine di orologi della casa di suo marito e decide quindi di spostare se stessa, la propria anima e tutta la propria potenzialità d’azione (di donna e di personaggio) fuori, sotto il cielo, in un giardino ideato e nutrito da lei con il contributo di altre donne che travalicano i confini degli schemi predefiniti. 
I giardini di questo libro sono dipinti di parole e ci restituiscono tutti i colori, le pieghe, le curve e gli odori della natura reale: “osservava quel luogo come se fosse la prima volta. Attraverso la vegetazione incolta alzò lo sguardo verso il vecchio edificio […], la facciata d’arenaria era quasi del tutto coperta da un enorme e antico glicine. Trecce di Clematis montana si arrampicavano a festoni fino al tetto. Molte delle finestre erano senza vetri e gli uccelli entravano e uscivano indisturbati; […]. Quella villa sembrava venuta fuori direttamente dal terreno, come se fosse esistita da sempre in quell’ansa fertile del fiume, con i convolvoli e le foreste di soffioni che spuntavano ovunque”. Il giardino come metafora della femminilità è un motivo antico e ricorrente, soprattutto nella scrittura delle donne. Nel libro di Natasha Solomons la sua presenza così rilevante, così prepotente da uscire quasi dalle pagine, è anche la rappresentazione di un ideale di vita a ogni costo, di resistenza, di dominio nel procedere indefesso dello spazio naturale anche oltre le vicissitudini (spesso foriere di morte) decise dagli uomini. La scena conclusiva del romanzo, non a caso, si scioglie in una serra dove, a dispetto della neve novembrina di fuori, i personaggi ritrovano il calore perduto sotto una volta di candidi fiori di ciliegio. 

12 giugno 2020

Verso l'estate

Le lezioni sono finite, anche quest'anno. Un anno scolastico un po' così, anche se gridare alla catastrofe è inutile e insensato. Nelle ultime settimane sono riuscita a finire tre libri, molto diversi l'uno dall'altro: il saggio 1913, l'autobiografia di Michelle Obama e un romanzo consigliato da Waterstones, che lo definisce un "campus mystery", The Truants
Il saggio 1913. L'anno prima della tempesta di Florian Illies (Marsilio) è un funambolico esperimento di viaggio nel tempo, per essere trasportati nella Storia ma anche nella quotidianità dei nomi esagerati che tutti insieme rivoluzionarono la (Mittel)Europa all'immediata vigilia della prima guerra. L'autore ci racconta Vienna, Parigi, Monaco e Berlino nei dodici capitoli segnati dai mesi di quell'anno fatale, rappresentando o semplicemente immaginando, talvolta con note romanzesche e sempre con molto divertimento, incontri epici: Freud e Jung, Picasso e Matisse, Thomas Mann e un tappeto difettoso, Kafka e Felice, Benn e i cadaveri sul suo tavolo, ma anche Francesco Giuseppe, Kandinskij, Tucholsky, Gertrude Stein, Proust e infiniti altri. Si tratta di un saggio davvero coinvolgente, che ci mostra il fascino di un anno e di un'epoca incredibili in un continuo andirivieni di osservazioni dall'alto e da lontano (com'è giusto che sia per un saggio storico) e di sguardo più intimo e ravvicinato, quasi sotto il microscopio, sulla vita "normale" di personaggi straordinari.
L'autobiografia di Michelle Obama, Becoming, mi è piaciuta molto nella sua prima parte, nel racconto dell'infanzia, della vita giovanile e degli anni universitari: è il racconto di una strada non sempre fluida, che però, grazie alla determinazione di due genitori radicalmente ottimisti (nonostante tutto) e a qualche deviazione anche fortuita da un cammino probabilmente già scritto, ha portato Michelle a "diventare" (appunto) quel che è diventata. Ho trovato appassionante il resoconto della campagna elettorale del 2008, che è stata e resterà un miracolo; sempre meno avvincente, invece, la narrazione degli anni da First Lady, che forse avrebbe potuto essere più concentrata sul valore altamente politico di quel ruolo e di quella posizione, e non esclusivamente sui numerosi impegni di mamma lavoratrice e moglie del presidente, sull'enumerazione dei nomi degli assistenti, sulle ripetizioni a volte eccessive, secondo me, del senso di soffocamento dovuto a una vita trascorsa fra le guardie del corpo. In questa seconda parte mi è mancato un po' il gusto della scrittura, e il libro, da raccolta di memorie, è diventato più un report di ricordi (differenza sottile, forse, ma incisiva per un lettore). 
Oggi ho terminato un'altra lettura "a mezza via", che per certi versi mi è piaciuta molto, soprattutto per la qualità della scrittura, per altri mi ha annoiata un po'. Il romanzo è The Truants, opera prima di Kate Weinberg: Jess Walker è una studentessa di letteratura a Cambridge, che attratta dalla fama di una docente si iscrive a un corso su Agatha Christie. Un principio intelligente, questo, che speravo di veder sviluppato molto di più, perché ero incuriosita dalla prospettiva di leggere questa autrice così celebre in ottica accademica. L'idea, invece, è svaporata abbastanza in fretta: la storia si spiralizza intorno alle vicende personali della narratrice (con qualche flashback non completamente utile) e il mistero che tiene in piedi il libro si sfilaccia un po', soprattutto in una sezione di ambientazione italiana eccessivamente stereotipata e non del tutto funzionale alla trama. Appena chiuderò questo post, dovrò scegliere cosa leggere adesso: la decisione spazia tra un saggio di Bill Bryson, un giallo di Carlo Lucarelli, un romanzo storico o il nuovissimo The Jane Austen Society di Natalie Jenner: particolarmente suggestivo in questi giorni, quando la casa museo di Chawton sembra a rischio di chiusura. Un'opportunità in più per ripensare a quanto il patrimonio collettivo sia importante anche per la dimensione privata di ognuno di noi.

2 maggio 2020

Shakespeare e l'arte di rovesciare i dittatori

In queste settimane, con la mia classe terza, sto lavorando (a distanza, naturalmente) su William Shakespeare. I miei piani iniziali sono stati leggermente sovvertiti dalle circostanze, però sto tentando ugualmente di far sentire ai miei studenti la magnificenza della scrittura e l’umanità sconfinata di questa suprema voce della letteratura, che è anche la nostra voce. Per cercare di adottare un linguaggio quanto più divulgativo e visivo possibile sto consultando, a tratti, il manuale “pop” a cura di Stanley Wells (et al.), The Shakespeare Book, che fa parte della collana Penguin Random House “Big Ideas Simply Explained”. 
La prima tappa del mio percorso con i ragazzi – passaggio obbligato per avvicinarsi alla sensibilità adolescenziale – è stata Romeo and Juliet, che molti avevano già scelto come lettura delle vacanze di Natale: alla scena del balcone dal film di Franco Zeffirelli ho aggiunto la lettura in inglese della stessa scena e del Prologo. È ora tempo, però, di passare allo studio di un tema shakespeariano universale, che è quello del potere; in questi giorni, quindi, mi sono letta il breve ma puntuale saggio di Stephen Greenblatt (tra i più grandi studiosi del Bardo) Il tiranno. Shakespeare e l’arte di rovesciare i dittatori (Rizzoli, trad. it. di R. Zuppet). 
Il saggio si apre con una serie di domande alle quali l’autore intende cercare una risposta rileggendo i drammi shakespeariani: “Com’è possibile che un intero Paese cada nelle mani di un tiranno? Perché un gran numero di persone accetta consapevolmente di essere ingannato?” Sono domande spaventosamente vicine al nostro tempo, come tutte le esplorazioni dell’umano che troviamo inoltrandoci nelle selve, spesso oscure, del dettato di Shakespeare. “I suoi drammi”, suggerisce Greenblatt, “sondano i meccanismi psicologici che conducono una nazione a dimenticare i propri ideali e persino il proprio interesse personale. Perché qualcuno, si chiede Shakespeare, dovrebbe appoggiare un leader paurosamente inadatto a governare, una persona pericolosa e impulsiva, malvagia e subdola, o indifferente alla verità?” 
Sono tanti i tiranni citati nel saggio, ma prima di nominarli mi soffermo momentaneamente sulla trattazione del Riccardo II, un dramma forse meno noto di altri, ma nel quale Shakespeare mette in atto una rivoluzione inaudita nel sistema dei valori elisabettiano. È una storia che racconta la caduta di un re – creatura prossima al divino, al vertice della gerarchia macrocosmica della cultura del tempo. Al lettore moderno i lunghi monologhi di Riccardo sembrano soprattutto atti di dolorosa introspezione, ma per lo spettatore del Cinquecento e Seicento suonavano come dichiarazioni clamorose, che incrinavano l’intera visione del mondo allora conosciuta. In questo dramma un re – il garante dell’ordine del cosmo – si lascia attrarre dal nulla, dall’avvilimento e dall’annullamento di sé stesso, intraprendendo il “dolce cammino” della disperazione. Alla vigilia della deposizione si chiede: “Che cosa deve fare il re ora? Sottomettersi? / Il re lo farà. Venire deposto? / Il re lo accetterà. Deve perdere / Il nome di re? […] Darò […] / il mio vasto regno per una piccola tomba, / una piccola, piccola tomba, una tomba oscura; / oppure verrò sepolto sulla strada maestra” e più tardi “ho reso vile la gloria / e la sovranità una schiava; / dell’orgogliosa maestà un suddito […] / Non ho nome né titolo / […] / ora non so con che nome chiamarmi” (trad. it. di A.L. Zazo, edizione Mondadori). 
Nel Riccardo II il tiranno sembra essere Henry Bolingbroke, che si appropria del suo trono; meno ambigua è la figura del dittatore per eccellenza, Riccardo III, di cui Greenblatt scrive in un eccellente capitolo sul rapporto del tiranno con coloro che lo circondano, e che si relazionano con lui secondo i vari gradi dell’asservimento inerte, della complicità malvagia, del terrore muto, della flebile resistenza. È un capitolo di grande attualità, che con lucidità avvicina evidentemente Shakespeare alle tragedie storiche del Novecento e di oggi. 
Nel corso del saggio si nominano re Lear, il sovrano impazzito che sovverte il principio per cui il monarca è deputato al controllo dell’universo, e il tiranno Macbeth, che commette l’atto empio per eccellenza dell’uccisione del re. Profondissimo suona il celebre monologo dello scozzese assassino, che una volta sul trono non può che fare i conti con i peccati che ha compiuto: “Domani, e domani e domani / striscia così, col suo misero passo, di giorno / in giorno, fino alla zeta del nostro tempo scritto; / e tutti i nostri ieri han rischiarato / ad altri pazzi / la strada della polverosa morte. / Spegniti, spegniti breve candela! / La vita non è che un’ombra vagante, un povero attore / che avanza tronfio e smania la sua ora / sul palco, e poi non se ne sa più nulla” (trad. it. di N. D’Agostino, edizione Garzanti). 
Ma il dramma politico che mi ha sempre appassionato di più è Julius Caesar. Il raggio che Shakespeare conferisce all’interiorità di Bruto è amplissimo, e come nel resto della sua scrittura il drammaturgo non ci offre la comodità di un’opinione univoca, di un giudizio valido a priori. Bruto è un assassino o un salvatore della patria? È un “uomo d’onore”, come lo definisce Antonio nell’indimenticabile monologo sul cadavere di Cesare, o un volgare parricida? Nella sua decisione di stroncare il germe della tirannia, Bruto è un magnifico eroe moderno, condannato alla tragedia perché sceglie di non diventare tiranno lui stesso uccidendo anche Antonio. E la sopravvivenza di Antonio è il movente della sua fine e di conseguenza, con l’avvento di Ottaviano, la fine stessa della Repubblica. Neanche l’assassinio del tiranno è la soluzione al problema.
Come scrive Greenblatt in conclusione di questo saggio: “Ci sono periodi, talvolta anche prolungati, in cui le motivazioni più crudeli degli individui più ignobili sembrano trionfare. Shakespeare, tuttavia, credeva che i tiranni e i loro tirapiedi prima o poi avrebbero fallito. […] La migliore possibilità di recuperare l’onestà collettiva era, riteneva, l’azione politica dei comuni cittadini. Il drammaturgo non perse mai di vista le persone che si chiudevano in un silenzio tenace quando venivano esortate a urlare il loro sostegno per il tiranno”. Una riflessione sempre valida, che il cittadino, nel suo ruolo laicamente sacro di difensore della polis, non dovrebbe mai dimenticare.

16 aprile 2020

Il buon soldato

Un capolavoro che ho letto in uno di questi strani e silenziosi pomeriggi è The Good Soldier. A Tale of Passion di Ford Madox Ford, disponibile in italiano per i tipi di Bompiani.
Il romanzo, che uscì nel 1915 dopo innumerevoli revisioni e che il suo autore considerava il compimento di un'intera carriera letteraria, è definito "impressionista", grazie alle intense e fugaci immagini che lo cospargono e che arrivano al punto di sostituirsi alla potenza del linguaggio. Ford fu amico e collaboratore di Joseph Conrad, con il quale (e con molti altri, tra cui Henry James) inaugurò una nuova stagione del romanzo, trasportandolo dalla vocalità univoca dell'Ottocento alla nuova forma frammentata del Modernismo. Anche The Good Soldier sembra obbedire al principio espresso da Conrad in The Nigger of the Narcissus: "My task which I am trying to achieve is, by the power of the written word, to make you hear, to make you feel — it is, before all, to make you see." ("Il mio compito, a cui sto cercando di adempiere, è, con il potere della parola scritta, farvi sentire, farvi provare sensazioni — è, prima di tutto, farvi vedere"). 
Il romanzo di Ford è la storia di due coppie accomunate dal fatto che uno dei due coniugi soffre apparentemente di una patologia cardiaca; questo costringe i quattro personaggi a trascorrere lunghi mesi in località di cura, ed è in una di queste circostanze che avviene il loro primo incontro, preludio di una pluriennale amicizia. La società intorno a loro è il luminoso, ancorché fragile, piccolo mondo edoardiano, che ancora si crogiola nella sua finta ingenuità prebellica. Il narratore Dowell, che è uno dei quattro protagonisti, ci mostra il rapporto tra le due coppie attraverso una eloquente quanto ingannevole immagine: "La nostra intimità era come un minuetto, semplicemente perché in ogni possibile occasione e in ogni possibile circostanza sapevamo dove andare, dove sederci, quale tavolo avremmo scelto [...]. No, perdio, è falso! Non era un minuetto, quello che misuravamo; era una prigione — una prigione piena di gente isterica che urlava, tenuta legata affinché le loro urla non si udissero al di sopra del rotolio delle ruote della nostra carrozza finché andavamo lungo i viali ombrosi" (trad. it. di M. Materassi). La delicatezza e la perfezione del minuetto si infrangono quasi subito e la storia che sembrava cominciata all'insegna dell'eleganza e della sobrietà morale si trasforma in un attimo in un inferno. 
Il flusso del racconto si ingarbuglia. Dowell ci confida, confida a noi lettori, di immaginare di narrarci la sua storia seduti davanti al camino, in una notte quieta. Ci chiede di perdonarlo se non sarà in grado di obbedire a un progresso naturale degli eventi: tutte le regole della logica, in effetti, vengono violate e la cronologia non si rivela come una linea diritta, bensì come un filo che si avvolge costantemente su sé stesso, allungandosi, srotolandosi, tornando indietro e impigliandosi, una pagina dopo l'altra, a un punto di vista differente. Ford, lo scrittore modernista, sfugge ai principi della narrazione ottocentesca; per lui e per la sua voce narrante una storia non può essere presentata al suo lettore già confezionata, ma si evolve e di alimenta mentre procede, indipendentemente da qualsiasi struttura pregressa. 
L'uditore seduto davanti al camino e noi lettori restiamo sbalorditi: mentre il narratore dimentica nomi, fatti e riferimenti, per richiamarli alla memoria in momenti imprevisti, noi cominciamo a non fidarci più di lui, a dubitare della sua lucidità e persino della sua verità. 
Ma che cos'è, dunque, la Verità, se non quella di chi racconta? La Verità è la nostra: è la verità di quell'uditore seduto accanto al fuoco ed è la verità di noi che leggiamo. Non una, non due: le verità sono plurime. La letteratura modernista non ci lascia riposare nel rifugio avvolgente di un migliaio di pagine vittoriane: ci chiama in causa, ci tormenta, ci fa dubitare; ci chiede di partecipare, con la nostra interpretazione, a ciò che viene narrato, e senza il nostro sforzo di comprensione il libro che stiamo leggendo perde addirittura di senso. Così Il buon soldato, che è la storia tremenda di un uomo che racconta di essere stato tradito (ma sarà poi vero?), ci trascina a ogni pagina, a ogni capoverso, a ogni virata di senso, verso il suo abisso.

17 marzo 2020

Immagini e ombre, l'autobiografia di Iris Origo

Se leggere un libro è come fare un viaggio, leggere un’autobiografia è viaggiare al fianco di una persona sconosciuta, che pian piano, tappa dopo tappa, con grande generosità ti invita a entrare nei suoi ricordi, regalandoti la parte migliore di lei. 
Sono appena tornata da un viaggio così, leggendo l’autobiografia di Iris Origo Images and Shadows. Part of a Life pubblicata da Pushkin Press (di questo libro so esistere anche una versione in italiano, Immagini e ombre, per i tipi di Longanesi). Ho comprato questo volume alla Libreria Senese, a Siena, appunto, attratta nel negozio dalla mia inguaribile incapacità di stare lontana da una libreria con le porte spalancate sulla strada. Ho aspettato diversi mesi per leggerlo, perché sentivo di aver bisogno di tempo e di quiete per godermi la storia della vita di questa scrittrice, un po’ americana, un po’ inglese, un po’ irlandese, un po’ italiana, che scelse la Toscana per trascorrere l’esistenza e divenne biografa di grandi nomi della letteratura – uno su tutti, Giacomo Leopardi. 
La scrittura è talmente bella, il tono diffuso così elegiaco da rendere questo libro toccante dall’inizio alla fine. Ne ho sottolineati innumerevoli brani, incapace di classificare la bellezza di un passaggio dedicato all’infanzia, o di una frase descrittiva del paesaggio, o di una riflessione sul fascino degli studi classici, o dell’ondulare nostalgico delle memorie. Concludendolo, si percepisce che l’intenso intimismo della narrazione non può tuttavia celare l’eccezionalità di questa vita: Iris Origo fu la figlia di William Bayard Cutting, grande amico del filosofo George Santayana e di Edith Wharton, e segretario personale dell’ambasciatore americano nel Regno Unito. Sua madre fu Lady Sybil Cuffe (figlia di un pari d’Irlanda), che fece trascorrere a Iris l’infanzia a Villa Medici, a Fiesole, e il cui secondo marito fu amante di Vita Sackville-West. Il marito di Iris fu il figlio illegittimo di un marchese italiano: con lui trascorse la vita coniugale nella tenuta di La Foce, sulle colline senesi, con lui affrontò il fascismo e la guerra, aprì un rifugio per bambini profughi, e offrì un nascondiglio a fuggiaschi e prigionieri di guerra alleati. 
Il libro è diviso in tre parti e procede, per ammissione stessa della scrittrice, concentrandosi sulle case in cui si dipanò il filo della sua vita. La prima parte è dedicata alle radici dell’albero genealogico di Iris, e si divide nella disamina della vita dei nonni (quello americano e quello irlandese), e sul racconto della vita dei genitori. Del nonno irlandese, Lord Desart, Iris scrive (qui e in seguito, trad. mie): “egli riversò su di me il gusto della vita così com’era nella dimora di campagna irlandese in cui trascorrevo le mie vacanze estive – un mondo di distanze azzurre e infiniti giochi e gioia, profumato della fragranza del pisello odoroso e del deciso sapore stringente dei ribes rossi, in cui le porte erano sempre aperte ai bambini, ai cani e ai vicini”. 
Iris Origo. Fonte: BBC
La seconda parte è forse la più evocativa, perché ci racconta la formazione di Iris, la sua crescita, i suoi studi, il suo avvicinamento alla letteratura. Dopo la dipartita prematura del padre, che morì sulle dune egiziane tentando di scampare alla tubercolosi, la madre portò Iris a Fiesole, a Villa Medici, che trasformò in stile inglese (“tende di chintz, acquerelli incorniciati, vasi d’argento colmi di rose, libri, profumi di scone e di tè appena fatto”) dove intrattenne ospiti celebri come Vernon Lee, mentre la bambina si rifugiava tra l’erba alta “nascosta con un libro nei giorni d’estate, a guardare in basso verso la lontana terrazza dove gli adulti, figure di nani, conversavano incessantemente”. La scrittrice riflette su quanto fossero avventurose quelle estati per lei bambina, che ancora doveva conoscere gli ostacoli e le pene del mondo e coltivava paure primitive, quasi piacevoli, e del tutto travolgenti: “è una delle punizioni dell’età adulta il fatto che le apprensioni e le intuizioni [dell’infanzia] vadano svanendo. Il muro tra noi e quel mondo si ispessisce: quella che era una consapevolezza fissa, anche se non formulata, è diventata solo un ricordo. Mentre passano gli anni, accade solo raramente che quella botola si apra nelle nostre memorie, e ne esca un effluvio di profumi quasi dimenticati, un bagliore di quel mistero”. In quella casa Iris intuì il passaggio della prima guerra mondiale, raccontatale soprattutto dal nonno irlandese nelle sue lettere, e fu sfiorata dalle morti da influenza spagnola. Da lettrice precoce quale sono stata, non ho potuto non innamorarmi delle pagine che Iris dedica alla sua attrazione per i libri; scrive: “l’immaginazione del bambino gli consente non solo di prendere da un libro esattamente ciò che gli serve – persone, genietti, tavoli o sedie – ma gli permette letteralmente di usare tutto questo per arredare il suo mondo. Non riesco a ricordare un periodo in cui io non l’abbia fatto. […] Divenni di volta in volta Maggie Tulliver, Jane Eyre, Catherine Morland, Natasha… Le loro ombre si allungano sullo sfondo della mia adolescenza con una vividezza negata a molte figure reali”. 
Iris poté godere di un’istruzione eccezionale, andando a lezione dal maestro Solone Monti, che le faceva studiare il latino e il greco facendola innamorare dei grandi classici, di Leopardi e di Pascoli; nel frattempo, metteva radici nel suo cuore un trasporto altrettanto caldo e sentito per l’Inghilterra – l’Inghilterra di Keats e di Jane Austen, un’Inghilterra che, come lei stessa scrive con una chiarezza che mi ha permesso di immedesimarmi subito in lei, soprattutto di questi tempi, non è quella del mondo reale, ma è la proiezione meravigliosa, la fantasmagoria, dei nostri desideri. È un’Inghilterra fatta di “biblioteche, guglie di cattedrali, malvarosa nei giardini dei cottage, ruscelli tra alti argini verdi, […] piccole chiese normanne in pietra grigia”. 
La terza parte dell’autobiografia è quella della maturità, del matrimonio, del racconto di La Foce. Iris non si sofferma sulla morte del figlioletto Gianni, ma scrive che quel dolore fu la spinta che la indirizzò sulla via della scrittura (e non ho potuto fare a meno di pensare a Elizabeth Gaskell, che visse la stessa esperienza). Il passo più toccante di questa sezione è l’impressione, rapida ma fortissima, come tutte quelle che permeano questo libro, che Iris conserva della seconda guerra mondiale: “la cacofonia”, trasmessa dalla radio, delle urla isteriche di Hitler, dei ruggiti degli applausi che lo salutavano, dell’apostrofe di Anthony Eden alla Società delle Nazioni, delle proterve dichiarazioni di Mussolini, delle canzoni fasciste dei soldati, e perfino dei bambini. 
Immagini e ombre, così bello che questo post è uno dei più lunghi di Ipsa Legit, è un cammino proustiano intriso di dolcezza. Scrive Iris che “se Proust ha ragione, sto portando dentro di me (a dispetto di tutti i mutamenti avvenuti) l’interezza della mia vita […] il tempo che supplicherei di avere è tempo nel passato, tempo per dare conforto, per completare, per riparare – tempo perduto molto prima che io sapessi quanto velocemente se ne sarebbe andato”. 
Sono tanti i passi che ho segnato in questo libro, e non potrei riportarli tutti. Uno di questi, però, devo citare a conclusione di questo lungo post, perché può esserci forse d’aiuto in un momento così delicato per il nostro paese. Quando la guerra finì, Iris scrisse sull’ultima pagina del suo diario: “Distruzione e morte ci hanno visitati. Ma ora, nell’aria, c’è speranza”.

26 febbraio 2020

Libri al tempo del virus

Chissà cosa penserò, in futuro, rileggendo questo post. Oggi è l’ultimo giorno delle vacanze di Carnevale, ma domani, e fino alla fine della settimana (per ora), non rientreremo a scuola a causa dell’emergenza dovuta al diffondersi del Covid-19. Quali sono, quindi, le mie letture al tempo del coronavirus? 
Dopo aver finito la bellissima biografia di Jane Austen firmata da Claire Tomalin, che la Nuova Editrice Berti ha recentemente pubblicato nella sua prima edizione italiana (a cura di Cecilia Mutti), mi sono letta a tutta velocità due bei romanzi di intrattenimento: Testimone inconsapevole, il mio primissimo esperimento – riuscito, direi – con la scrittura di Gianrico Carofiglio, e Scandalo in casa Mitford di Jessica Fellowes. Quest’ultimo è stato davvero un buon libro, che in generale mi è parso meglio strutturato dei due capitoli precedenti della saga: la sorella Mitford protagonista di questo romanzo è Diana, e bisogna ammettere che Fellowes ha evocato piuttosto bene la società sfavillante, ma già ghermita dalle prime ombre del disastro incombente, che circondava questa controversa figura storica. 
Tuttavia, l’esperienza di lettura più corroborante delle attuali giornate infestate dagli allarmismi è stato l’accomodarmi nel mio angolo libresco (la poltrona accanto alla finestra del mio studio) e da lì partire per un affascinante viaggio del pensiero, accompagnata da Évelyne Bloch-Dano e dal suo Le case dei miei scrittori (Add Editore, 2019, trad. di Sara Prencipe e Michela Volante). Il libro è una raccolta di brevi resoconti dedicati alle impressioni dell’autrice in visita a diverse dimore letterarie (case autentiche o musei). L’introduzione, giustamente intitolata “Apriamo la porta”, è un brano bellissimo, intensamente evocativo, che sprigiona tutta la passione di una lettrice vorace e di una curiosissima viaggiatrice: “il mio sguardo […] rincorre le parole, i libri, l’intero universo simbolico proprio dello scrittore, che prende corpo in un’atmosfera, in un contesto, talvolta negli oggetti”. “Questi momenti, in cui passato e presente si confondono, sono i più belli. Illusione di realtà? Forse, ma anche comunione, e talvolta comprensione profonda o diversa, sensuale, quasi carnale, dell’opera e del suo autore”. “Credo che la casa sia uno ‘stato d’animo’, e che spetti a noi farne risuonare l’eco, talvolta lontana. È il riflesso della nostra vita intima”. Gli scrittori, e le loro case, citati in questo libro sono in maggioranza francesi; non mancano però i tedeschi (Nietzsche, Brecht), gli americani (gli scrittori del Ritz, Edith Wharton), gli inglesi. È particolarmente bello il capitolo dedicato a Karen Blixen e alla sua fattoria in Africa; il paesaggio intorno ai luoghi di Chateaubriand ci travolge con la sua struggente bellezza; la rappresentazione del salotto di Louisa May Alcott a Concord è piena di vivacità; ci lascia strabiliati la descrizione della dimora di Victor Hugo, in esilio a Guernsey (“Astenersi menti banali”, commenta divertita l’autrice). Come sono riposanti i passi dedicati alla Lamb House di Henry James, nel Sussex, così è affettuoso lo sguardo sull’immensa biblioteca della Keats and Shelley House a Piazza di Spagna. Infine, è pieno d’amore il racconto dei luoghi di Proust in Normandia: “Seguire Marcel Proust a Cabourg equivale a camminare su terre reali e immaginarie, portare una località di villeggiatura della Belle Epoque nel contesto incantato del Tempo”. 
Come scrisse Emily Dickinson, “There is no Frigate like a Book / To take us Lands away” (“Non c’è vascello che come un libro / possa portarci in terre lontane”): e poiché in certi momenti non c’è niente di meglio che una terra lontana, la lettura ci è sempre di grande conforto.

12 febbraio 2020

Un comodino Neri Pozza

Ragionando sulle mie più recenti letture, mi sono accorta che sono tutte accomunate dall'inconfondibile marchio della casa editrice Neri Pozza. Nelle scorse settimane dalle sue tipografie sono uscite tante nuove pubblicazioni interessanti, che sono andate ad aggiungersi ad alcuni libri pubblicati dallo stesso editore qualche tempo fa e che non aspettavano altro che farsi leggere con grande gusto. 
Sul mio comodino c'è Un anno con Shakespeare di Allie Esiri, che sfoglio ogni sera appena prima di cena o prima di dormire, per leggere la citazione dedicata al giorno appena trascorso. Oggi il brano è tratto da Pene d'amor perdute (Atto IV, Scena 3), da cui estrapolo questa manciata di versi: "Dagli occhi delle donne traggo questa dottrina:/ del fuoco di Prometeo essi scintillan sempre;/ son essi i libri, le arti, le accademie/ che mostrano, contengono, nutrono il mondo intero" (trad. it. di Chiara Ujka).
La scorsa settimana ho letto il nuovissimo La ricamatrice di Winchester di Tracy Chevalier, storia di una donna inglese degli anni Trenta che percorre il suo cammino di vita sospinta da un insopprimibile desiderio di passione e di affermazione della sua identità. Se la storia narrata mi è sembrata piuttosto semplice, ho trovato la preziosità di questo libro nella ispirata raffigurazione di due sottotesti affascinanti della magnifica enciclopedia della cultura inglese: il ricamo dei cuscini per la cattedrale di Winchester e la sapienza dei suonatori di campane. Insomma, anche se non mi sono affezionata molto ai personaggi, ho amato la rievocazione dello Hampshire di allora, con i suoi segreti inconfessati, le complicate dinamiche di una piccola comunità, il dolore soffocato di una generazione di donne che ha perduto e rimpiange i suoi figli, fratelli e fidanzati, morti in trincea. E mi è proprio sembrato di vedere i colori, e di sentire la morbidezza impalpabile di quei fili di seta sotto le mani, la voce sussurrata dell'ago che vola sulla tela, e in sottofondo il rintoccare del batacchi sul piombo, levati in un alto canto di celebrazione. 
Una scrittrice che da qualche tempo sto tentando di scoprire è un'altra inglese, Daphne du Maurier, grandissima scrittrice della suspense che finora avevo conosciuto solo marginalmente, ma di cui sono davvero curiosa di sapere di più. Ho cominciato questo percorso, naturalmente, con la lettura del magnifico Rebecca nell'edizione il Saggiatore, e proprio in questi giorni sto concludendo Mia cugina Rachele (Neri Pozza), che nonostante i suoi settant'anni d'età conserva tutta la forza, la freschezza e l'asprezza di un romanzo che è molto difficile riporre. Il narratore è Philip Ashley, che racconta il suo rapporto, misterioso e ambiguo, con la cugina Rachele, moglie del defunto cugino Ambrose. La storia è potente e ombrosa fin dalle sue prime battute, con sezioni che tolgono il fiato: bellissimi scorci italiani, in equilibrio tra lo splendore dei palazzi dei ricchi fiorentini e la miseria inquietante della gente del popolo; incantevoli, vividissimi panorami della Cornovaglia, patria della scrittrice; e la rappresentazione perfetta di una passione distruttiva che lotta contro la certezza di un'impossibile armonia; una passione consapevole della propria sorte, eppure incapace di trovare tregua: "In quell'istante capii cosa Ambrose aveva visto in lei, che cosa aveva desiderato senza mai ottenerlo. Capii il tormento, il dolore, l'abisso che si apriva tra loro. Gli occhi di Rachele, così scuri, così diversi dai nostri, ci fissavano senza comprenderci. [...] Nella penombra anche il suo viso era straniero. Un viso sottile, un profilo su una moneta" (trad. it. di Marina Morpurgo).
Quando avrò terminato Rachele, dovrò scegliere se cominciare Daphne di Tatiana De Rosnay (la biografia della scrittrice che Neri Pozza ha pubblicato nel 2016: titolo originale, Manderley For Ever) o deviare dal cammino e intraprendere il magnifico viaggio dentro la nuovissima edizione di Via col vento di Margaret Mitchell (Neri Pozza 2020) oppure ancora entrare nello scintillante mondo de I Goldbaum di Natasha Solomons (Neri Pozza 2019), o forse distrarmi un po' con il nuovo capitolo dei Mitford Murders di Jessica Fellowes (Neri Pozza 2020)...
Direi che per le prossime settimane sarò in ottima compagnia! 

14 gennaio 2020

Piccole donne, il film

Ieri sera sono stata al cinema a vedere Piccole donne, il capolavoro di Greta Gerwig. È difficile trovare il modo giusto per descriverne la qualità e l’immensa bellezza: forse l’unica strategia per riportare questa esperienza (ed è davvero stata un’esperienza) è ricorrere a una sequenza colpevolmente disordinata di momenti emotivi, di immagini, di attimi senza fiato. 
Il film è un intreccio costante tra i due grandi capitoli del romanzo: quello della fanciullezza (per noi Piccole donne) e quello della maturità (Piccole donne crescono). Tutta l’intensità della storia si gioca lì, su quel limite sottilissimo e strapieno di vita, quella linea impercettibile eppure severa, che segna il passaggio da un’epoca all’altra, da un’età all’altra. C’è grande sapienza, da parte della regista, nel tenere sempre in perfetto equilibrio i due piani narrativi; anzi, direi che c’è perfezione. C’è una scena – non è neanche una scena, è quasi un frammento, in verità – in cui l’abbandono dell’infanzia si mostra in tutta la sua potenza, quasi sacra: è un ricordo fugace di Jo, che da adulta ricorda un istante con Laurie. Un istante apparentemente insignificante, in cui lei gli ruba il cappello in un gesto d’affetto: ma è un momento di essere così travolgente da farci commuovere. 
Le quattro ragazze March sono quanto di meglio si sia mai visto. Meg è deliziosa. Beth non è (finalmente) costantemente sull’orlo del baratro, ma ci regala una dose di inedita vitalità che ci fa rimpiangere ancora di più la sua sorte. Amy è esattamente quello che io ho sempre visto in lei, a dispetto della lunga tradizione di condanne e opinioni denigratorie di milioni di lettori – Greta Gerwig dà finalmente a questo personaggio un volto che forse neanche Alcott era riuscita a conferire chiaramente, e che toccava al lettore intuire: in questo film Amy è limpida, radiosa, schietta, piena di passione, moderna, vivida, presente nel mondo e nella sua vita. 
E poi c’è Jo. Leggendo il libro si è portati naturalmente ad amare Jo. È come se non si potesse farne a meno, si viene trascinati verso questo affetto letterario, ma talvolta è come se non lo si sentisse per davvero. Il film, invece, ci mostra prepotente il motivo di tanto trasporto. Saoirse Ronan (l’attrice candidata all’Oscar per questo ruolo) entra del tutto in Jo, e ce la restituisce nuova, intelligente, padrona di sé, irrefrenabile. E l’effetto è a dir poco meraviglioso. 
La grandezza di questo film sta proprio nel dare una seconda vita alla storia. Il vittorianesimo americano dell’età di Alcott (ma anche di Thoreau, di Emerson, e dei pittori paesaggisti della Hudson River School) si libera di tutti i suoi oscuri stereotipi e al contrario splende di energia: ragazze che ridono, corrono, gridano, giocano sulla spiaggia, giovani uomini con i gli abiti e i capelli raffazzonati, feste da ballo in cui si alza un po’ il gomito, tentazioni a cui è difficile resistere, la paura esistenziale del fallimento che si trasforma in una posa di freddezza e in una finta, sofferente, negligenza. L’attore che interpreta Laurie (Timothée Chalamet, perfetto per attirare a questa storia le spettatrici più giovani) dimostra giusto il talento necessario per impersonare questo carattere, in bilico tra Ottocento ed età moderna. 
La rappresentazione che Gerwig fa della storia, e soprattutto il suo bellissimo finale (che non posso certo rivelare), ricamato sulla scena magistrale della rilegatura del romanzo di Jo, appartiene tutto al ventunesimo secolo, eppure, e proprio in virtù della sua perfetta aderenza alla contemporaneità, conserva la funzione vittoriana della trasmissione di un messaggio forte, di un insegnamento. In questo caso, il messaggio è la libertà delle donne: quella di Amy, quella di Jo, quella di Gerwig – e la nostra. 
I ragazzi e le ragazze di oggi dovrebbero proprio vederlo, questo film, perché è inequivocabilmente fatto per loro. Noi “grandi”, tuttavia, non ne siamo esclusi: il nostro destino è di commuoverci a cospetto della tenerezza della rivisitazione degli episodi centrali del libro, di stupirci di fronte alla sopraffina tecnica cinematografica, di incantarci per una fotografia di livello inestimabile, di apprezzare le minuzie della sceneggiatura e la qualità eccelsa della scenografia – la perfezione degli interni, la bellezza travolgente degli esterni. 
Le mie aspettative su quest’opera erano altissime. Non c’è stato un solo minuto, nelle due ore e un quarto del film, in cui siano state tradite.

5 gennaio 2020

Louisa e le piccole donne

Buon anno, cari lettori! Il 2020 di Ipsa Legit si apre con una riflessione su un libro squisitamente stagionale: Piccole donne, che in queste settimane è ritornato ad apparire nelle prime file delle librerie grazie all’uscita del nuovo omonimo film che ne è stato tratto, diretto da Greta Gerwig (il trailer si può vedere qui). 
Piccole donne e Piccole donne crescono, i due libri italiani in cui si è diviso l’unico volume originale di Little Women, ci hanno accompagnato per tutta la vita: io li lessi per la prima volta da bambina, poi li ripresi da adolescente e adesso, da adulta, ritorno talvolta a rileggerne qualche breve brano, per ritrovare nel testo la conferma a certi ricordi improvvisi o la gratificazione di quel gusto per la narrativa che non mi abbandona mai. Oggi, sui miei scaffali, Little Women è uno dei libri di cui vado più orgogliosa, perché è un’edizione del 1913 con una bellissima copertina in decori Art Deco che ho scovato in una libreria di seconda mano sull’isola di Wight. Come una storia nella storia. 
La mia attuale rilettura del libro, in attesa di vedere il film, è accompagnata da un’importante opera appena pubblicata, che ci offre un punto di vista attentissimo e decisamente affascinante sulla mente che ha ideato questo romanzo immortale. Si tratta di Louisa May Alcott. Una biografia di gruppo di Martha Sexton (a cura di Daniela Daniele), che solo pochi mesi fa è uscita nella sua prima edizione italiana grazie a Jo March – una casa editrice che ci ha abituato alle belle sorprese ma che ciononostante continua a stupirci per l’accuratezza e la passionalità delle sue scelte letterarie. Il libro appartiene alla collana “Christopher Columbus” e riporta la stessa straordinaria bellezza grafica dei volumi precedenti. 
Nella biografia di Martha Sexton troviamo rappresentazioni della vita di Louisa piene di suggestioni, soprattutto quando si concentrano sull’atto della scrittura: “A maggio, Luisa fece ritorno a casa per cominciare a scrivere Piccole donne. Lavorò alla sua piccola scrivania, grande appena da poter infilarci le ginocchia, sotto la finestra della sua camera. Scrisse per giornate intere, senza mai correggere o ripensare una sola parola”; “Lavorava assiduamente al suo scrittoio, completando ogni giorno un capitolo nuovo, vergato con una scrittura nitida e inclinata verso sinistra, che imprimeva con decisione sulla pagina, impugnando con forza il pennino d’acciaio”. Anche la casa di Concord attira lo sguardo del lettore, assorbendo e lasciandosi assorbire, come sempre accade, dalla personalità della scrittrice che le abita: “La stanza d’angolo di Louisa era quadrata, ariosa, e piena di luce con finestre sui lati. […] La piccola scrivania di Louisa era posta sotto le finestre anteriori, dalle quali entrava una morbida luce primaverile, filtrata attraverso gli alberi”. 
Foto dello scrittoio di Louisa May Alcott, di Annie Leibovitz,
tratta dal suo libro Pilgrimage
Penso che questa luminosità filtrata, accompagnata dai profumi delle foglie e del vento, ma sempre in bilico sulla penombra, sia l’atmosfera predominante di Little Women. L’aspetto più interessante della biografia pubblicata da Jo March è proprio la rivelazione di questo confine sfuocato nei pensieri di Louisa, di questo conflitto nascosto e sempre sull’orlo della deflagrazione, dell’impossibilità di sfuggire al lato oscuro delle storie. 
Piccole donne è un romanzo per ragazzi perché alla prima lettura si mostra per ciò che ne incoraggiò la scrittura: la volontà di tracciare una netta barriera tra il bene e il male e di rappresentare lo sforzo epico delle giovani donne March, e di Jo in particolare, per passare dalla parte giusta del muro. Le sorelle ricevono per Natale una copia di The Progress of the Pilgrims di John Bunyan (Il viaggio del pellegrino) affinché questo indichi loro la strada verso il Bene; lavorano sodo per realizzarsi; due si sposano abbastanza presto, dopo aver affrontato i naturali ostacoli della vita amorosa, che le portano a migliorarsi interiormente. Solo Jo, alter ego letterario dell’autrice, fatica a rientrare negli schemi imposti da suo padre (e dal padre di Louisa) e dalla sua filosofia. Le sofferenze di Jo sono reali, tormentose: il senso di colpa, da cui a tratti lei sembra lasciarsi voluttuosamente travolgere, ispira tante – troppe – delle sue decisioni, e le delusioni che la sua autrice dissemina lungo il suo cammino sono amare, astiose, per niente educative e difficili da rimarginare. Tanta inquietudine, questo spesso velo di insoddisfazione, non sono più il tema di un romanzo per ragazzi, ma il soggetto di un’analisi di grande forza emotiva che la biografia di Sexton ci aiuta ad approfondire e a comprendere. 
La seconda parte di Little Women (quella che in italiano è stata chiamata Piccole donne crescono) è quella che maggiormente ci lascia intuire tale contrasto. Le ragazze sono più grandi: Meg è sposata, Amy supera i confini della casa paterna, con tutte le sue voci e le loro istruzioni di vita, e se ne va in Europa a costruirsi un futuro; solo Jo sembra sempre sul punto di realizzarsi, ma non ci riesce mai. La sua scrittura non è quella che dovrebbe essere, il raggio del suo allontanamento da casa arriva solo fino a New York e la sua parabola si chiude nella celebrazione della morale predicata dai suoi genitori, in una vecchia casa piena di memorie, con un marito che replica la figura patriarcale, un ruolo materno moltiplicato all’infinito, e la definitiva rinuncia all’arte. Ho trovato davvero rimarchevole la disamina delle ombre di Alcott nella nuova pubblicazione Jo March: i grandi racconti, in fondo, si evolvono dall’evoluzione di un conflitto, e tutta la straordinaria luce delle sorelle March non poteva che avere come controparte la storia di una scrittrice dai grandi dolori, come fu Louisa.