31 dicembre 2013

Buon anno!

Ai miei cari lettori che mi hanno accompagnata lungo tutto il 2013 tanti auguri per un prospero anno nuovo! Poiché tra i buoni propositi per una nuova era che inizia non possono mancare le letture, ecco un elenco di libri che ho amato tanto e che mi piacerebbe consigliarvi per il 2014. I vostri suggerimenti sono come al solito i benvenuti!
Spero di ritrovarvi affezionati e numerosi come sempre anche il prossimo anno! Un abbraccio a tutti...
Gennaio: mentre ancora infuria l'inverno, Con gli occhi dell'Occidente di Joseph Conrad  
Febbraio: per il mese dell'amore e della passione, Una lontana follia di Kate Morton
Marzo: la delicatezza della primavera che avanza mi suggerisce Le ali della colomba di Henry James
Aprile: è ora di leggere o rileggere Gita al faro di Virginia Woolf
Maggio: festeggiamo il bicentenario della pubblicazione di Mansfield Park di Jane Austen
Giugno: sono passati cent'anni dalla pubblicazione di Gente di Dublino di James Joyce
Luglio: iniziano le celebrazioni in ricordo dello scoppio della prima guerra mondiale. Partecipiamo con Il ritorno del soldato di Rebecca West
Agosto: ci rilassiamo un po' con Assassinio sul Nilo di Agatha Christie
Settembre: festeggiamo il mese della vendemmia leggendo Un'ottima annata di Peter Mayle
Ottobre: per il mese gotico per eccellenza, Il discepolo di Elizabeth Kostova
Novembre: a questo mese si adattano le atmosfere malinconiche de L'età dell'innocenza di Edith Wharton
Dicembre: speranza e magia ne La tempesta di William Shakespeare
Foto di Mara Barbuni

17 dicembre 2013

Jane Austen: i luoghi e gli amici

Ci sono viaggi che si fanno prima con il cuore, poi con le gambe, poi con le parole, e infine con i ricordi... e ogni volta i compagni che ci affiancano nel nostro cammino sono diversi.
In questi anni di riscoperta critica della letteratura di Jane Austen (dopo una prima lettura delle sue opere al liceo) ho desiderato visitare i luoghi che sono teatro della sua vita e della sua scrittura, e per una piccola parte ho realizzato quel sogno: ho visto Chawton Cottage (dove lavorò alle bozze di Ragione e sentimento e di Orgoglio e pregiudizio e dove scrisse Emma, Mansfield Park e Persuasione), la cattedrale di Winchester, dove la scrittrice è sepolta, Bath (con il suo Jane Austen Centre e le sue scenografie per Northanger Abbey) e Lyme Regis (dove è ambientata una parte di Persuasione). Sono però ancora molte, e molto importanti le tappe degli andirivieni di Jane Austen su e giù per l'Inghilterra meridionale che non ho ancora potuto conoscere: innanzitutto il prato dove sorgeva il rettorato di Steventon (dove Jane venne alla luce) e poi Chawton House e Godmersham Park (nel Kent), le dimore signorili del fratello Edward dove l'autrice trascorse frequenti e lunghissime porzioni della sua vita.
Ma di recente ho potuto fare un viaggio con le parole che mi ha consentito di vedere con l'occhio del cuore tutti questi luoghi, e anche molti di più. L'"agenzia di viaggi" che mi ha dato questa opportunità è stata JASIT, la Jane Austen Society of Italy (che ho contribuito a fondare insieme a Giuseppe Ierolli, Silvia Ogier, Gabriella Parisi e Petra Zari), con la collaborazione della casa editrice Jo March (di Valeria Mastroianni e Lorenza Ricci, che con la collana "Atlantide" stanno riscoprendo un intero mondo sommerso di gioielli letterari). Tutti noi, spinti dal comune intento di diffondere una conoscenza sempre più profonda di Jane Austen nel nostro Paese, abbiamo lavorato alla traduzione in italiano di uno splendido travelogue compilato nel 1901 dalle sorelle Constance ed Ellen Hill, l'una scrittrice e l'altra illustratrice.
In Jane Austen: i luoghi e gli amici, un resoconto originale ed emozionato che cita brani dai romanzi e dalle lettere, ma anche da testi biografici scritti dai parenti di Jane Austen e ancora pressoché sconosciuti in Italia, le sorelle attraversano quella che loro stesse per prime chiamano "Austenland", in un viaggio che parte da Steventon, prosegue per Bath, tocca Lyme, Southampton, Manydown, Godmersham, Stoneleigh Abbey, Londra e approda allo scrittoio presso la finestra del Chawton Cottage.
Bellissimo è il ricordo dell'avventura della traduzione stessa e poi della sua trasformazione in un vero e proprio libro (acquistabile dal 16 dicembre, giorno del compleanno di Jane Austen, su www.jomarch.eu e in seguito in moltissime librerie italiane). Noi di JASIT ci siamo divisi il lavoro, occupandoci di tradurre un gruppo di capitoli ciascuno e poi scambiandoci i risultati per operare un controllo incrociato degno dei migliori e più attenti revisori! Le discussioni, le proposte, i dubbi, il lavoro di annotazione svolto spulciando fonti e archivi di tutti i tipi hanno reso la traduzione di questo libro ancora più accurata e più preziosa. Anche la scelta della copertina ha richiesto il suo tempo e la sua elaborazione: la fotografia, e il colore finale, ci hanno tenuti incollati al computer per ore, per giorni.
Il giardino del Chawton Cottage.
Foto di Mara Barbuni (2007)
Per non dire della volata finale prima della stampa, con la revisione delle bozze e un'atmosfera di entusiasmo, di gioia, di amore per la conoscenza e la condivisione che ci ha accompagnati fino al giorno della pubblicazione (e resisterà, di certo, a lungo...). Ringrazio allora i miei compagni di viaggio per quanto mi hanno insegnato in questo percorso, e anche per avermi permesso di tradurre uno dei capitoli ai quali ero più legata: quello su Lyme Regis, che per me è un luogo magico e affettivamente molto importante, per quel suo essere un paradiso letterario e geologico insieme. Vi invito dunque a entrare attraverso questa soglia e a seguirci, sulla scia del viaggio di Constance ed Ellen Hill, sulle orme di Jane Austen.

13 dicembre 2013

Sherlock Holmes nella Casa della Seta

Tutti gli appassionati di Sherlock Holmes lo sanno e aspettano con trepidazione: il 1 gennaio su BBC One comincia la terza stagione di Sherlock, la serie che finalmente ha dato al celeberrimo detective di Conan Doyle una vitalità ben definita, elegante, dignitosa, e ben aderente alla genialità del personaggio letterario. Se a pensare a Sherlock Holmes sullo schermo vi vengono in mente la serie della CBS Elementary (in cui un bravo Jonny Lee Miller dà il volto a uno Sherlock devastato dagli stupefacenti residente a New York e Watson è - terrificante - una donna) o, peggio ancora, i due film di Guy Ritchie con Robert Downey Jr. e Jude Law (che però è un dottor Watson fedele alla rappresentazione che ne danno i romanzi di Conan Doyle), in cui la straordinaria intelligenza del detective è oscurata dalle improbabili carambole di un film d'azione in costume, andatevi a cercare Sherlock, il cui valore narrativo, di regia e di interpretazione è davvero insuperabile.
Basti dire che ogni episodio è una modernizzazione di un racconto/romanzo di Holmes, che recupera le simbologie e gli elementi più forti dell'opera letteraria e rielaborandoli senza mai tradirli costruisce un impianto sorprendente e tutto nuovo (tanto per dire, Watson, che come il suo antenato è stato ferito in Afghanistan - corsi e ricorsi storici... - non scrive libri, ma tiene un blog). Il solo aspetto che si discosta nettamente da Conan Doyle è l'insistita presenza di Moriarty, che la scrittura ha portato sulla scena una volta sola, mentre nella serie è un personaggio incombente, ricorrente, anche solo per sottintesi (ma l'attore che lo interpreta è talmente talentuoso che perdoniamo agli autori questa libertà!).
Insomma, in "onore" della ripresa, attesissima da tutti, di questa serie, ho letto negli ultimi giorni The House of Silk (La casa della seta, trad. it. Mondadori, 2012) di Anthony Horowitz, il primo autore contemporaneo - già famoso giallista - cui la Conan Doyle Estate Ltd., che detiene i diritti d'autore sul personaggio, abbia consentito di scrivere un libro con Sherlock Holmes come protagonista. Premesso che raggiungere le altezze di Arthur Conan Doyle è praticamente impossibile, il libro si distingue per alcuni aspetti positivi: il detective è rappresentato abbastanza bene, e il soffermarsi sul lato umano del suo carattere non ne disturba la figura sempre algida e brillante; Watson, che come da tradizione scrive in prima persona, è un carattere appassionato, pieno di dubbi e di contraddizioni, di paure, di speranze e di rimpianti che ne fanno un perfetto uomo tardo-vittoriano; l'inglese è semplicemente bellissimo; Londra è dipinta meravigliosamente, soprattutto negli angoli ombrosi che l'hanno resa un simbolo del gotico fin-de-siècle:
"Un corvo nero e cencioso era appollaiato sul ramo di un albero, ma non c'era altro segno di vita. La luce stava scemando rapidamente, eppure le lampade non erano ancora state accese e io avvertivo un senso di ombre dentro le ombre, di un mondo quasi privo di qualunque colore"; "La prigione era di stile gotico; alla prima occhiata appariva come un castello dalla forma irregolare, minacciosa, come uscito da una fiaba scritta per un bambino malvagio. [...] consisteva di una serie di torrette e comignoli, pennoni e mura merlate, con una sola torre che si slanciava verso l'alto e sembrava quasi sparire dentro le nuvole". (Qui e altrove le traduzioni dall'inglese sono mie.)
Cionondimeno la struttura narrativa, bisogna ammetterlo, è un po' confusa: lo schema di fondo che mi è parso di scorgere, quello cioè di una costruzione a "scatole cinesi" (una trama che si incastra dentro un'altra), non è gestito troppo sapientemente, e si ha come la sensazione che l'autore abbia a un certo punto cambiato idea e abbia iniziato a raccontare un'altra storia - anche se poi alla fine i fili si riuniscono e al lettore sono offerte soluzioni a tutti gli enigmi. In conclusione, la caratteristica più meritevole di questo romanzo è un passo di metafiction in cui Watson dà voce a una interessante riflessione sulla propria attività letteraria, sulla forza dei propri principi morali e sull'eguaglianza degli esseri umani nel momento del disastro: "E' curioso pensare oggi, proprio alla fine della mia carriera di scrittore, che ognuna delle mie cronache è terminata con lo smascheramento o l'arresto dei criminali, e che dopo quel punto, quasi senza eccezione, io ho semplicemente presunto che il loro destino non sarebbe più interessato ai miei lettori e li ho abbandonati, come se solo la condotta illecita avesse giustificato la loro esistenza e come se, una volta risolto il caso, questi non fossero più esseri umani con un cuore sofferente e uno spirito distrutto. Non ho mai una sola volta preso in considerazione la paura e l'angoscia che essi devono aver provato attraversando le porte a vento [della prigione] e percorrendo i suoi cupi corridoi. Qualcuno di loro ha mai pianto lacrime di pentimento, ha mai pregato per ottenere la salvezza? Qualcuno di loro è mai fuggito? A me non interessava. Non faceva parte della mia narrazione." 
 
 

4 dicembre 2013

Ritratto di signora

Non è mai facile rispondere alla domanda "Qual è il tuo romanzo preferito?", anzi, sembra impossibile. "Preferito", poi è un aggettivo inadatto a classificare una lettura. Però, se proprio ci si deve pensare, e si passano in rassegna gli affollati archivi dei propri ricordi, qualcosa fa capolino, torna costantemente sotto l'occhio di bue della nostra attenzione, e alla fine si impone. Magari non sarà il romanzo "preferito", ma di certo sarà un libro che ha contribuito a forgiare la nostra visione delle cose e della scrittura. Nel mio caso si tratta di Ritratto di signora (The Portrait of a Lady) di Henry James. Perchè? Altra domanda ostica. Non so elencare i motivi di questa scelta, ma so per certo che è un romanzo traboccante di bellezza....
Nella piana di Gardencourt ondeggiano i fiori lievi, sospinti dal vento del crepuscolo; il Tamigi scintilla lontano, e nell’aria tersa si espande il silenzio. È la prima cornice del ritratto di Isabel Archer, una "rara apparizione" che racchiude nella sua intatta bellezza le profondità azzurre del fiume, e insieme la quiete del tardo pomeriggio. Tre uomini assistono all'epifania di questa bellezza, e usciti d’un tratto dall’ombra più o meno tragica delle loro sorti, prontamente respirano la freschezza di Isabel e si incantano di lei. La vita terrena del signor Touchett va disperdendosi nel silenzio dei giorni, e così il suo attaccamento alla nipote è solo mormorato, fievole, un ultimo soffio d’affetto prima dell’ultimo viaggio. Anche Ralph è gravemente malato, e poche sono le speranze che lo trattengono nella mondana esistenza. Isabel è per lui un colpo al cuore, una folgorazione inattesa: d’ora in poi egli vivrà per vederla, e null’altro, per contemplare tacitamente la sua espansione nel mondo invocando grandi promesse di libertà. E tuttavia il vero innamorato non è colui che solo osserva, ma colui che agisce, come lord Warburton: James non racconta il procedere del suo sentimento, bensì narra la raffinata potenza del suo esito nel momento supremo della dichiarazione alla donna. La conosce solo da poche ore ma il calore che lei irradia, luminosa come una stella nuova, l’ha già avvinto per l’eternità: "Per la vita, signorina Archer, per la vita". La dolcezza di Warburton, già nostalgica nell’istante stesso della sua espressione, eleva l’acutezza della sua sofferenza, che ogni innamorato respinto saprà interpretare come propria; la dignità del Pari inglese, scalfita dal rifiuto, è destinata a una perpetua ascesa. Ma l’istante contemplativo della loro convivenza è ormai estinto, nell’incompatibilità degli affetti, e d’ora innanzi la giovane e il lord non potranno più incontrarsi senza che l’aria dintorno si contamini di un sordo dolore, di un rimpianto irrisolvibile e della percezione stessa della rottura dell’incanto. Isabel, sospinta dalla sua ardente immaginazione, è tesa all’andare, all’indagine inesauribile dell’universo storico e artistico nonché della piccola mondanità sorretta dalle reti della alta conversazione. Isabel abbandona Gardencourt perché la sua mente  è troppo vasta, e tra quegli angusti confini, sebbene confortati da giuste amicizie, rischia di soffocare. È l’Italia l’eden da guadagnare, e la giovane vi si abbandona con l’impeto d’esplorazione di un’anima ancora in boccio e desiderosa di maturazione. Il fiore è ancora chiuso, turgido, fragrante nella sua ignoranza delle cose, misterioso nella sua altissima moralità. Da Firenze i movimenti di Isabel si aprono all’Oriente, lo percorrono, ne tornano via con frenetico affanno, come fossero un dovere, e la strenua fatica di allontanarsi dai suoi corteggiatori si fa insistente, ossessiva.
Isabel celebra la propria libertà finanziaria e immaginativa nell’esodo, dai bagliori dei tiepidi tramonti sull’Arno alle vette d’oro delle Piramidi che sprofondano nell’azzurro – mentre il bocciolo s’ingravida di conoscenze e sensazioni, lentamente s’incrina, esala fragranze dolcissime, e sfuggono piano alla sua stretta le cime dei petali screziati. Di colpo la giovane si scopre stanca di viaggiare, di quella fuga dall’amore: per giunta, c’è in Italia il seme di una nuova amicizia, il bandolo di un legame abbandonato e nondimeno sempre pulsante nel cuore. L’amore per Osmond è l’estate dei sensi per Isabel Archer: l’alcova dove elargire la sua bontà e dove rifugiare le aspettazioni, nutrendo a piene mani la fantasia. Isabel non cede alle ragioni oppostele dalla signora Touchett o da Ralph, e a dispetto di quella fresca presunzione con cui un tempo aveva respinto uomini chiari, seri, dal cuore ampio, la giovane sceglie Gilbert Osmond, creatura fragile come uno specchio ingannatore, la confederazione delle ombre, degli sguardi sottili, dal sorriso sfregiato dal sarcasmo. Lo sceglie perché in lui spera di trovare la forma perfetta della gratificazione e il piacere dell’intervento disinteressato che ambisce a bonificare un terreno incolto e nascostamente malsano. Caspar Goodwood e lord Warburton erano come vasti campi di sole dove perdersi nella spensieratezza di una corsa a perdifiato verso l’orizzonte; ma Isabel ne è stata distratta dalla trappola dell’immaginazione perversa dall’egotismo, che la scaglia contro una reale infelicità. In questa infelicità non respira nemmeno la speranza, poiché l’orgoglio innalza cancelli di scuro ferro intorno al suo palazzo romano, sempre infestato da visitatori ciarlanti e mai, mai rallegrato – com’era la lontana Gardencourt, lontana nelle miglia e nei ricordi – dalla pacata e spesso tacita amicizia di grandi uomini. La luce di Isabel, così calda e intensa, che era solita dilatarsi nella spaziosità di anime elette, è ora confinata tra le feritoie di una casa maritale sovraccarica di cose morte e facce stantie, come una necropoli dimenticata. Il suo ritratto è ora vestito di nero, ed è il vano squadrato di una porta antica a incorniciarlo.
La campagna del Somerset.
Foto di Mara Barbuni (2007)
I declivi verdi della campagna, i richiami delle rondini sul cielo striato della sera, la meraviglia delle pietre antiche e dei dipinti eccelsi defluiscono nelle lacrime rade della donna, il solo splendore che lei possa ancora emanare. La morte di Ralph, il caro Ralph, raccoglie nel suo freddo ventre le ultime gocce della passione di Isabel e la deposizione ultima degli alti voli della sua fantasia. Isabel ha perduto la sua capacità immaginifica, e nondimeno rimane una creatura poetica, nell’afflato di nostalgia degli sguardi lontani, nel racconto appena intonato del suo dolore, e nelle sue memorie, quando, di tanto in tanto, ricorda Gardencourt, "qualcosa di sacro, con quelle immense camere scure dove l’edera cupa frastaglia gli stipiti delle finestre luminose".

29 novembre 2013

Come cresce una storia

Questo post è dedicato a due bellissime esperienze: la lettura di un libro, che lo è sempre, e la mia prima partecipazione a un Reading Group non virtuale. Finora infatti i Gruppi di Lettura che ho frequentato sono stati unicamente spazi online in cui scambiare opinioni e impressioni; oggi, invece, nella stanzetta di una biblioteca di Berlino, questo stesso baratto di emozioni l'ho vissuto guardando i volti delle persone, e questo episodio mi ha convinto ancora di più del fatto che una storia ben scritta non finisce con la sua ultima pagina, ma si trasferisce nel cuore e nella testa di chi l'ha letta, e lì dentro si trasforma, si ingrandisce, si prepara a intraprendere nuovi percorsi e si intreccia con migliaia di altri racconti.
Il libro che abbiamo letto per l'incontro di oggi è Aprons and Silver Spoons, sottotitolo: "The Heartwarming Memoirs of a 1930s Scullery Maid" (Grembiuli e cucchiai d'argento. Le toccanti memorie di una sguattera degli anni Trenta). Non si tratta di un romanzo, ma della vera e propria rincorsa ai ricordi di Mollie Moran, una signora nata nel 1916 che a quattordici anni iniziò a lavorare come sguattera nella cucina di una casa (in realtà due: quella di campagna e quella di Londra) della nobiltà inglese. Il riferimento a Downton Abbey è naturalmente immediato, ed è l'autrice stessa a mettercelo davanti agli occhi, dichiarando che gli autori della serie sono stati precisi e attenti e hanno ricreato un mondo molto vicino alle sue memorie - ad eccezione del fatto che le gonne indossate dalle cameriere "vere" erano molto più corte di quelle fittizie....
Quella di Molly è una storia piuttosto felice e di successo. I tratti più tragici del suo racconto sono quelli in cui ci racconta del padre, gassato nelle trincee della prima guerra mondiale e da allora vittima di accessi di tosse insanguinata, e di tanti altri soldati tornati in patria ma da questa abbandonati, spesso prigionieri dello shock post-traumatico (shell shock) e per questo costretti a sopravvivere nelle miserie degli ospizi di mendicità (workhouses). Quando parla di sé, però, le parole di Molly ci regalano il ritratto di una vita contenta e fortunata: la sentiamo narrare delle gioie della sua infanzia (con il venerdì che era il momento felice per eccellenza: il mercato, il bagno, il profumo dei dolci fatti in casa), della tenerezza della madre, della splendida amicizia con Flo, degli amoretti sparsi per la strada, di un posto di lavoro massacrante, ma in cui si sentì sempre protetta (contrariamente alla norma...), delle luci estasianti di Londra, della carriera da cuoca, e infine del matrimonio con un ufficiale della RAF, che realizzò il sogno di Molly di vedere il mondo.
Mollie Moran
Il libro è pervaso da una visione positiva e ottimistica che ha l'effetto di una iniezione di fiducia. Mollie non vive in un mondo facile: lavora quindici ore al giorno, svolge quotidianamente quelle che noi chiamiamo "pulizie di primavera" (scrubble è una parola frequentissima nel libro, e ci pare quasi di sentirlo, quell'indefesso strofinare gli argenti, il legno del tavolo della cucina, il rame delle pentole, le pietre dei gradini d'ingresso), e vive nella certezza che anche un minimo errore potrebbe condurla alla rovina. Era così per le domestiche dell'epoca - deludere anche solo marginalmente lo standard morale imposto dal maggiordomo significava ritrovarsi per la strada, senza soldi, né amici, né referenze, né speranze. Eppure Mollie è una donna che gode di ogni momento della sua esistenza: l'entusiasmo e quel pizzico di trasgressione che le sono propri le fanno superare qualunque difficoltà con un largo sorriso e le garantiscono la soddisfazione dei suoi desideri. Potrebbe persino sembrare una storia stucchevole, se non fosse vera....
L'aspetto più sorprendente e arricchente di questo Gruppo di Lettura, come dicevo, sono state le strade parallele lungo le quali questo libro ci ha accompagnati. I partecipanti (inglesi, americani e tedeschi) avevano, credo, superato tutti la cinquantina e oltre, e i ricordi di Mollie Moran si sono intrecciati ai loro. Ho sentito storie di prima mano sui conflitti di classe, sulla solidarietà e la gentilezza della gente degli anni Cinquanta, sulla devozione della popolazione di allora per la Royal Family, sulle mucche che pascolavano in centro a Berlino, sull'invenzione del semaforo a Potsdamer Platz, sul fatto che in Inghilterra, quando le auto non avevano le frecce, si sporgeva il braccio dal finestrino per segnalare una svolta, sulle ricette del bread and butter pudding, sulla tradizione di portare, nelle giornate gelide, una tazza di tè al vigile urbano che dirigeva il traffico. 
La lettura ci apre delle porte che la natura ci ha sbarrato, e sbirciando oltre la soglia... si vedono meraviglie.

18 novembre 2013

Doris Lessing

Foto di Mara Barbuni
Per me il 2007 è stato l'anno di Doris Lessing. Ho letto diverse cose, ho rincorso libri che non venivano pubblicati da tempo (e che da domani, naturalmente, affolleranno le librerie), e ho conosciuto una scrittura limpida, diretta come una lama. Quello stesso anno lei vinse il Nobel per la letteratura, ed entrò a far parte del ristretto gruppo di donne che possano fregiarsi di questo titolo. Doris Lessing è morta ieri a 94 anni, lasciandoci l'eco di una voce flebile ma piena di voglia di raccontare. Come lei stessa disse: "Sono nata per scrivere, geneticamente. Voglio raccontar storie", ed è proprio la sua grande passione per la narrazione ad avermi attirato verso i suoi romanzi. Nel mondo contemporaneo non è facile incappare in uno scrittore che si senta spinto verso la narrazione. La maggior parte costruisce vignette, figurine, istantanee, la cui caratteristica principale è un andamento sincopato, fatto di frasi smozzicate e di accostamenti semantici che dovrebbero, in teoria, lasciare il lettore senza fiato. 
No, Lessing ha riempito i suoi libri di frasi armoniche ed evocative, e ha dato vita a paesaggi aperti, quasi senza orizzonte, come quelli africani, o a scene domestiche di una veridicità sconvolgente. Le sue atmosfere sono ricche, dense, pregne di movimento, di sensazioni, di dialoghi che rivelano quanto l'anima umana sia capace di precipitare in profondità sconosciute a lei stessa.
Le donne delle sue storie sono creature reali e palpabili, perchè c'è in loro un senso di irresolutezza che le conduce alla ricerca di qualcosa, quasi sempre della libertà. In Il sogno più dolce leggiamo dell'esistenza di una madre che ogni giorno lotta contro la furia autodistruttiva della sua famiglia:
"Frances rimase lì seduta, sola. In tutto il paese le donne si affaccendavano ai fornelli, irrorando di sugo milioni e milioni di tacchini, mentre il Christmas pudding fumava. Nell'aria si spandevano gli aromi sulfurei dei cavolini di Bruxelles. I tacchini erano adagiati sopra enormi distese di patate. Il malumore regnava sovrano, ma lei, Frances, era seduta lì come una regina, sola. Solo chi ha subito la pressione di adolescenti vulcanici, o di persone emotivamente dipendenti che succhiano e si nutrono e chiedono, può comprendere il puro piacere di ritrovarsi liberi, anche soltanto per un'ora." Anche la Alice di La brava terrorista è una donna in lotta, in lotta contro il caos fisico e morale della vita, e nel tentativo di rendere abitabile una casa occupata applica al mondo esterno l'ordine che tutti gli esseri umani inseguono all'interno delle pareti del loro corpo.  
Come spesso accade, sono i racconti a restituire con maggiore immediatezza la grande forza narrativa di Lessing. Sono pagine che sembrano richiamare le sue parenti lontane, Virginia Woolf e Katherine Mansfield, nel puro nitore dell'espressione e nella capacità di accendere sulle scene della finzione la luce della verità. Racconti londinesi (come negli altri casi faccio riferimento alle edizioni Feltrinelli) è una galleria fotografica di donne che a dispetto delle vaste tristezze dell'esistenza sono ancora capaci di ricordare la gioia, di vedere e di creare la bellezza, e di sorridere:
"La primavera cantava tra i platani che riempivano due finestre lungo un'unica parete, mentre sulla parete accanto i vetri mostravano un cielo intensamente azzurro. Gli alberi, carichi di foglie giovani, venivano riflessi nei due specchi rotondi disposti in corrispondenza delle finestre, come oblò sul muro bianco. Di fronte alla parete con il suo quadrato di cielo azzurro aveva appeso un grande paesaggio marino, comprato a un mercato per poche sterline; lì mare blu, cielo blu, spruzzi bianchi, bianche nuvole precipitavano eternamente gli uni sugli altri. [...] In piedi, con la mano capace appoggiata tra i riflessi dei fiori sul tavolino lucido, lei sorrideva, senza preoccuparsi di guardarsi allo specchio poiché sapeva che proprio come lei al momento di incontrare [suo marito] - con ansia ma con sicurezza - avrebbe frugato tra le aride rovine in cerca di ciò che ricordava da una quarto di secolo prima, così lui avrebbe cercato in lei ciò che era stata. E' così che si rincontrano, invecchiati, gli amanti di un tempo, come soffusi da quel sorriso segreto e irreprimibile." (da: Il pozzo)

7 novembre 2013

Jane Austen e la teoria letteraria: una riflessione


Foto di Mara Barbuni
Che le opere di Jane Austen possano essere annoverate fra i classici immortali della letteratura mondiale è ritenuto un dogma, è assodato, è fuori discussione. Quale sia la natura di un “classico letterario”, e quali definizioni potrebbero essere associate a questo termine potrebbe però essere oggetto di una lunga e articolata riflessione. È mio parere che uno dei parametri validi per giudicare l’immortalità e la grandezza di un’opera letteraria sia la possibilità di leggerla da una molteplicità di punti di vista, persino poco pertinenti l’uno con l’altro. Se, come sosteneva Calvino nella sua celeberrima osservazione, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha dire”, si può affermare che un’opera soggetta a quante più possibili interpretazioni critiche deve essere definita un classico.
Sfogliando una qualsiasi bibliografia austeniana, come può essere quella che noi di JASIT (Jane Austen Society of Italy) abbiamo inserito nella nostra pagina “Bibliografia italiana”, o nella nostra “Study Guide”, o la sistematica bibliografia redatta annualmente dalla Jane Austen Society of North America (consultabile fra i vari articoli della loro rivista online, “Persuasion”), è facile notare – anche semplicemente con un’occhiata ai titoli dei vari contributi – che almeno i sei romanzi canonici sono stati e sono tuttora oggetto di studi critici che derivano dalle più svariate scuole di pensiero. Non tutte le opere di narrativa sono così ricche di significato da poter godere di un simile trattamento.
In questo post voglio tentare un rapido excursus che tocchi le principali manifestazioni della teoria e della critica letteraria del Novecento per dimostrare che ciascuna di loro ha, ha avuto, o potrebbe avere, la possibilità di scavare nella scrittura di Jane Austen per trovarvi infiniti spunti di pensiero e di discussione. Poiché la teoria della letteratura è un mondo gigantesco, poliedrico, persino un po' labirintico, mi farò accompagnare in questa riflessione da un manuale molto snello e intelligente, The Blackwell Guide of Literary Theory a cura di Gregory Castle. E' un libro assai utile per chi abbia bisogno di immergersi nelle sacre acque della teoria letteraria prima di un esame importante o di uno scritto impegnativo. 


Se la seconda parte di questo libro è dedicata ai grandi nomi della storia della critica (Adorno, Barthes, Benjamin, Cixous, Derrida, Eagleton, Foucault, Irigaray, Iser, Kristeva, Lyotard, Said e tanti altri), la prima metà esplora i diversi focus del pensiero novecentesco. L'attenta cronologia che precede i diversi capitoli fa risalire la stessa idea di teoria letteraria (al di là delle prime espressioni romantiche e vittoriane) agli ultimi anni del diciannovesimo secolo, e concretamente nelle opere dei grandi scrittori modernisti come Virginia Woolf, Henry James, Joseph Conrad, T.S. Eliot, W.B. Yeats.
Partiamo con i cosiddetti Cultural Studies. Raymond Williams affermò l'allontanamento da una visione della cultura elitaria e idealistica verso un'idea più ampia, che riconosca il dinamismo e la complessità della società contemporanea. All'interno di questo ambito si ritrova un'enfasi sulla cultura di massa rappresentata dai giornali, dalla televisioni e oggi dai media digitali, e in generale un'attenzione particolare sul modo in cui i lettori recepiscono l'opera letteraria. Come non vedere che negli ultimi anni Jane Austen si è offerta a questo percorso interpretativo forse più di qualsiasi altra grande voce della letteratura? Pensiamo ai film, ai serial, ai fumetti, ai blog, ai videogame, alle celebrazioni, alla sconfinata oggettistica che gira intorno alla sua figura e ai suoi personaggi. Non si deve temere smentita se si afferma che molti fan di Austen non hanno probabilmente mai finito di leggere i suoi libri. Se poi vogliamo soffermarci su quel particolare aspetto dei Cultural Studies che è l'orbita degli studi postcoloniali, ci sono passi delle opere di Jane Austen che offrono spazio a questa argomentazione. Forse più degli altri, sono Emma e Mansfield Park gli oggetti di tale interesse (del secondo ha scritto profusamente Edward Said in Culture and Imperialism): ne ho parlato più dettagliatamente in un post di JASIT intitolato "Cittadini del mondo: visioni contemporanee dei personaggi di Jane Austen". 
Emma e Mansfield Park sono stati di recente oggetto anche di diversi articoli critici concentrati sull'uso del linguaggio, e di quel delicatissimo rapporto tra parola e silenzio che fa grande un'opera letteraria, perché permette ai suoi fruitori (i lettori) una sconfinata libertà di interpretazione. La teoria decostruzionista è probabilmente l'ispiratrice di questi interventi, perchè questo movimento si è dedicato al modo in cui il linguaggio ha costituito il significato attraverso il gioco delle differenze, degli "errori" e dei vuoti di significante... pensiamo ai giochi di parole così importanti per lo sviluppo delle vicende in Emma!
Sulle teorie femministe e i gender studies il discorso è ancora molto complesso (basti pensare al rigurgito di velenoso maschilismo apparso sui commenti online alla notizia che l'immagine di Jane Austen comparirà sulla banconota da 10£!). Di certo, però, l'opera di Austen è pervasa di, se non talvolta addirittura motivata da, riferimenti allo stato di dipendenza in cui versavano le donne della sua epoca. Il matrimonio, croce e delizia delle sue storie, è pensato, aspirato e vissuto in costante rapporto con il denaro, rivelandosi così nella sua natura di contratto di vendita del corpo femminile. Il quale, di conseguenza, non sembra appartenere veramente alle donne, ma non è altro che un prezioso e fragile specchietto per le allodole più ricche, da tenere quindi particolarmente da conto. Orgoglio e pregiudizio è illuminante da questo punto di vista.
Parlando di denaro e di gerarchia sociale non possiamo non pensare alla critica marxista: secondo questa linea di pensiero, l'analisi del contesto e delle strutture storico sociali è fondamentale per comprendere un testo letterario. E quali se non i romanzi di Jane Austen offrono la visione di un mondo in cui la quotidianità è regolata dal dominio di una classe sociale sull'altra e dal valore pratico ed economico delle cose e delle persone? Non serve ricordare che gli uomini e le donne di Austen sono più o meno tutti classificati numericamente - ovvero in base al numero di zeri della loro rendita o della loro dote, rispettivamente.
Chiudiamo con l'approccio psicologico ai sei romanzi canonici. Non è difficile citare come stimolo di una simile riflessione la delicata relazione tra genitori e figli. Forse a causa del complesso rapporto con la propria madre, Austen ha creato una miriade di personaggi che il destino ha reso orfani o i cui padri e le cui madri sono talmente insulsi da far pesare la loro assenza sulla crescita emotiva dei figli. La galleria di esempi è molto affollata: i signori Bennet, il padre di Anne Elliot, il padre di Emma, per certi versi la signora Dashwood, i genitori di Fanny Price e persino il padre e la madre di Mr. Darcy (lui stesso ritiene di essere stato reso così "orgoglioso" dal tipo di educazione ricevuta durante l'infanzia) risultano totalmente inadeguati al loro ruolo di educatori. Per i genitori assenti, come le tenere madri di Anne e di Emma, rimane vivo un senso di mancanza che non può che contribuire al progresso delle loro vicissitudini. Un esempio molto chiaro dell'importanza data a questa assenza è l'incipit della miniserie Emma (BBC, 2009), che rappresentando un originale antefatto al romanzo mostra le diverse sorti di tre bambini orfani di Hartfield: la stessa Emma, che però dopo la morte della madre ne trova una vicaria nei panni di Mrs. Weston; Frank Churchill, spedito da una zia arcigna a causa dell'incapacità di suo padre di prendersi cura di lui; e Jane Fairfax, che diventerà la più sofferente, seria e matura dei tre, perchè a sostituirsi ai genitori perduti non avrà a disposizione altro che la povera Miss Bates.

26 ottobre 2013

I Crawley e gli “altri”: il conflitto etnico e sociale a Downton Abbey

Fonte: telegraph.co.uk
Come ben sanno i suoi fan, da qualche settimana in Inghilterra è in onda la quarta serie di Downton Abbey, pluripremiata serie televisiva di produzione angloamericana creata da Julian Fellowes, la cui terza stagione dovrebbe essere trasmessa in Italia nel periodo natalizio. Ho avuto modo di parlare altre volte di Downton su IpsaLegit, ma in questo post mi interessa sottolineare come questa serie sia anche un interessante spazio di analisi delle differenze etniche e sociali che hanno contribuito a fare della cultura inglese ciò che essa è. Il quasi unanime plauso della critica, il vastissimo consenso di pubblico e i numerosi riconoscimenti che le sono stati assegnati sono dovuti di certo al cast (molto noto in Gran Bretagna anche per le sue partecipazioni a riduzioni televisive dei grandi classici), ai costumi e alle ambientazioni, ma anche alla capacità della serie di rievocare con attenzione al dettaglio le atmosfere dell’Inghilterra del primo Novecento. La contrapposizione tra strati sociali e, in senso lato, tra il popolo inglese e il resto del mondo sono elementi dell’età e della cultura edoardiana che Downton Abbey sottolinea con accuratezza, proponendo episodi, spunti narrativi e brani di sceneggiatura che tendono evidentemente al ritratto socio-culturale.
Il primo aspetto da tenere in considerazione è l’ambientazione. Downton, i cui esterni e la maggior parte degli interni sono stati girati ad Highclere Castle nell’Hampshire, si trova nella contea di York. La lingua parlata dalla servitù, in particolar modo, è fortemente caratterizzata dall’accento tipico del nord dell’Inghilterra: quando li sentiamo parlare, Anna, Thomas e la signorina O’Brian tradiscono immediatamente la loro provenienza soprattutto nella cadenza e nel modo di pronunciare le vocali. Nello Yorkshire la popolazione è profondamente legata alla proprie radici e alla propria tradizione, e vanta un’identità ben definita che la differenzia dagli abitanti delle altre contee del Regno. Elizabeth Gaskell, nel suo Sylvia’s Lovers ambientato a Whitby all’epoca della coscrizione obbligatoria dovuta al protrarsi delle guerre napoleoniche, scrive: "it is certain that the southerners took the oppression of press-warrants more submissively than the wild north-eastern people. […] A Yorkshireman once said to me, “My county folks are all alike. Their first thought is how to resist.” […] In other places [the press-gangs] inspired fear, but here rage and hatred." (Gaskell, Elizabeth, Sylvia’s Lovers, OUP, 1999, pp. 7-8).
Questa attitudine alla forza e alla “resistenza” è propria dei personaggi più radicati alla terra dello Yorkshire attraverso il legame linguistico: Anna (la capocameriera), la signorina O’Brian (cameriera personale di Lady Grantham), la signora Patmore (la cuoca) e la signora Hughes (la governante) sono tutte rappresentate come donne dallo spirito infaticabile, fiero e reattivo. Un inglese piuttosto standard è invece parlato dalla famiglia Crawley, formata da Lord Grantham, sua moglie Cora, le figlie Mary, Edith e Sybil, e la contessa madre Lady Violet (interpretata da Maggie Smith). La separazione tra i due grandi gruppi di personaggi che abitano a Downton Abbey è proprio il motore dell’intera narrazione, che costantemente sposta il focus dal piano di sopra, o “piani alti” (upstairs), le stanze degli aristocratici, al piano di sotto, i “piani bassi” (downstairs), territorio della servitù.
Il rapporto tra la famiglia e il suo piccolo esercito di dipendenti è per molti versi leggibile come una metafora delle relazioni tra l’Inghilterra e gli stati sottoposti al suo dominio. Emblematico a questo proposito è uno scambio di battute tra Daisy, la sguattera, e la signorina O’Brian: alla domanda della prima, “A cosa serve stirare i giornali?” la seconda risponde, “Vuoi che Lord Grantham si ritrovi le mani nere come le tue?” [stagione I, episodio 1]. La stessa Daisy, che rappresenta in assoluto il grado infimo dell’articolata gerarchia di Downton, sottolinea il fatto che nelle cucine venga preparato troppo cibo per la famiglia [I.1]. Quando si viene a sapere che una delle cameriere, Gwen, desidera lasciare il servizio per cominciare a lavorare come segretaria [I.4], l’evento diviene oggetto di conversazione della famiglia riunita a tavola alla presenza di alcuni ospiti: la contessa madre sostiene che forse la legge non dovrebbe permetterglielo, “per il bene comune”, e viene rimbeccata dalla cugina Isabel che le domanda: “rimpiangete forse i tempi della schiavitù?”. La stessa cugina Isabel afferma che sarebbe giusto aiutare Gwen “a progredire”, ma Lady Violet – in tutto e per tutto simbolo della vecchia Inghilterra resistente al cambiamento – chiosa: “non se questo va contro i suoi interessi”. Uno spiccato paternalismo è in effetti la cifra che contraddistingue la relazione tra upstairs e downstairs a Downton, quasi in obbedienza agli stessi principi per cui l’inglese vittoriano si era abituato a rapportarsi con il “buon selvaggio” delle colonie. La gentilezza con cui i Crawley trattano i loro sottoposti rivela come essi ravvedano nei membri della servitù delle persone bisognose di attenzione, di cortesia, ma anche di consigli e di una guida esperta per affrontare le sfide della vita. Lord Grantham sembra quasi sentirsi in colpa quando il suo valletto, claudicante per una ferita di guerra, tradisce il dolore e la fatica nell’esercizio delle proprie mansioni, e sua moglie Cora, che in un episodio viola la privacy della servitù riunita per colazione entrando nella loro sala senza preavviso, si rivolge alla propria cameriera personale con “se vogliamo essere amiche…”.
Highclere Castle
La grande casa è per molti versi un simbolo dell’Inghilterra, non solo perché ne incarna le più antiche tradizioni ma anche poiché viene rappresentata come un’isola (essa si erge, solitaria, su un vasto territorio tenuto a prato) nettamente contrapposta a tutto ciò che, provenendo “da fuori”, costituisce un motivo di mutamento, talvolta progressivo, molto più spesso minaccioso. La sigla del primo episodio della prima stagione, diversa da quella comune a tutti gli altri, inizia con l’immagine del treno che porta a Downton il signor Bates (il nuovo valletto di Lord Grantham): egli è evidentemente un forestiero, il cui legame con Lord Grantham è dovuto alla loro partecipazione insieme alla guerra in Sudafrica. Contemporaneamente, la sigla mostra i telegrafisti del villaggio di Downton che ricevono il messaggio dell’affondamento del Titanic, il dato storico che dà il motore all’intera vicenda fittizia. 
A causa del naufragio della nave e della morte dei due eredi legittimi di Downton, infatti, un lontano cugino di Lord Grantham, Matthew Crawley, diventa il suo successore: viene dunque invitato a vivere nel villaggio e con il suo ingresso nella famiglia innesta il germe di un profondo cambiamento nelle sue sorti (per dirla con Propp, il suo arrivo rappresenta la rottura dell’equilibrio preesistente, momento cruciale di uno schema narrativo, e costituisce l’ingresso sulla scena dell’eroe destinato a grandi imprese – la prima guerra mondiale, rappresentata nella seconda stagione – e all’unione con la principessa – in questo caso, Mary Crawley).
La figura di Matthew è assimilabile a quella di un “selvaggio” che a causa di circostanze sgradite a tutti viene introdotto in una “vera” casa inglese. Matthew viene da Manchester, non è nobile, è figlio di un medico e non è un “gentiluomo”, poiché deve lavorare per vivere (esercita l’avvocatura). Il suo ingresso nella famiglia di Lord Grantham è interpretato come un disperato tentativo di venire “civilizzato” – persino il maggiordomo e i camerieri si sentono a disagio in sua presenza, e lo trattano come un parvenu zotico e ignorante: Thomas gli spiega come comportarsi a tavola, e il suo valletto personale, il signor Mosley, si chiede se sia opportuno che un uomo come Matthew, che si veste da solo (“non mi abituerò mai a farmi vestire come un bambolotto” [I.2]) e non ama essere servito, divenga il padrone di Downton. Matthew stesso non apprezza il nuovo stato delle cose, perché comprende che i Crawley lo vogliono a loro immagine e somiglianza, e alla madre dichiara: “Non permetterò che mi cambino, io devo essere me stesso” [I.2]. Le critiche più feroci a Matthew giungono da Mary, che all’inizio della loro conoscenza non fa che sottolineare le differenze tra una vita aristocratica e un ménage borghese. Il (fondato) timore di Mary è che i genitori le impongano di sposare Matthew per salvaguardare contemporaneamente il titolo nobiliare, la dimora, e il denaro provenuto dalla dote di Cora: la giovane racconta a tavola [I.3] la leggenda di Andromeda e Perseo, evidentemente paragonando se stessa alla principessa offerta in sacrificio, Evelyn Napier, un nobiluomo ospite a Downton, a Perseo, e Matthew, naturalmente, al mostro che minaccia il futuro del sangue reale.
Evelyn Napier è l’inconsapevole responsabile di uno scandalo che minaccerà di travolgere Downton per tutta la durata della prima e della seconda stagione della serie. È lui infatti a portare a casa dei Crawley Kemal Pamuk, giovane e affascinante ambasciatore turco che morirà nel pieno della notte nella stanza di Mary, trasformandola agli occhi della famiglia da principessa a “merce avariata” – come la definisce sua madre. L’episodio in cui si compie la vicenda di Pamuk [1.4] inizia molto significativamente con una battuta di caccia che metaforizza non solo il rapporto tra Mary e Napier (lei lo ha invitato a Downton con l’obiettivo di farsi chiedere in moglie) e tra Mary e Pamuk (durante la notte lui la “stanerà” nella sua stessa camera da letto), ma soprattutto mette in scena, in un tripudio di cani, cavalli e giubbe rosse, la quintessenza della cultura inglese aristocratica. Non a caso, Matthew afferma di non cacciare (accetterà di farlo però, nel Christmas Episode 2010 che chiude la seconda stagione, a testimonianza del completamento del suo processo di assimilazione ai Crawley), di preferire i libri, e nelle stesse ore dell’uscita degli altri si dedica alla visita di alcune chiese dei dintorni.
L’incontro di Downton con Pamuk è eloquente dal punto di vista del rapporto fra la Englishness e lo straniero di origini orientali. I commenti che lo riguardano, gli atteggiamenti nei suoi confronti, ma anche il carattere e l’istintività che gli sceneggiatori attribuiscono al suo personaggio tradiscono pregiudizi legati alla sua “selvaticità”, nonché all’irrefrenabile sensualità ad essa correlata. Prima di vederlo, Mary lo definisce “un buffo levantino con il sorriso smagliante e la testa intrisa di brillantina”; Lord Grantham parla di lui come “un bocconcino per le signore”; e Thomas, il cameriere omosessuale, tenta con lui un approccio al quale Pamuk reagisce commentando: “dovete liberarvi dei pregiudizi britannici sugli stranieri”. Il suo richiedere a Thomas di essere poi accompagnato nella stanza di Mary (in una scena di forte sapore gotico: la casa buia, i due guidati da una candela, il “libertino” che assale una – consenziente, in verità – fanciulla vestita di bianco) ha però l’effetto di confermare quegli stessi pregiudizi. Interessante, durante lo scambio di battute tra i due, dopo che Mary chiede a Pamuk se la sposerà, la risposta di lui: “Purtroppo non credo che la nostra unione renderebbe felice la vostra famiglia – né la mia”, le cui ultime tre parole suscitano un’occhiata sorpresa da parte della giovane inglese.
Nel corso della notte, nel letto di Mary, Pamuk viene colpito da infarto e muore. La ragazza è costretta a confessare l’accaduto prima alla sua cameriera poi alla madre, innescando un meccanismo di timore dello scandalo, di ricatti e di minacce che come detto proseguirà per molti episodi successivi. L’evento del conflittuale incontro tra gli inglesi e il turco si chiude con le parole dell’anziana Lady Violet, che il mattino dopo l’accaduto commenta: “Non poteva che accadere a uno straniero, è tipico […]. A nessun inglese verrebbe mai in mente di morire in casa d’altri.”
Fonte: dailymail.co.uk
Non è tuttavia solo con lo straniero orientale che Downton Abbey è chiamata a confrontarsi. Nello stesso episodio [I.4] viene introdotto un personaggio che porterà grande scompiglio nella famiglia. È il nuovo chaffeur, Tom Branson, irlandese, colto e repubblicano, che alla fine della seconda stagione [II.8], dopo molte peripezie e dopo la fine della guerra (che per ammissione di tutti i personaggi ha generato un mondo che “non sarà mai più quello di prima”) sposerà Sybil e la porterà con sé a Dublino. Lord Grantham ha molte difficoltà ad accettare questa unione; Sybil esclama “non puoi certo rinchiudermi”, e Branson lo accusa di essere “uguale a tutti quelli della sua categoria. Pensate di avere il monopolio dell’onore”, contestando così apertamente quell’anglocentrismo che la famiglia Crawley e tutti coloro che essa rappresenta danno per scontato. La storia d’amore conosce una lieta evoluzione: Sybil parte per l’Irlanda con il benestare del padre, e quando scrive alla famiglia di essere incinta [Christmas Episode 2011] quest’ultimo commenta: “So we’re going to have a Fenian grandchild”, la cui traduzione, nella versione italiana, “irlandese”, non rende pienamente il carico di pregiudizio e rassegnazione insiti nella scelta dell’aggettivo originale. I due tornano a Downton in occasione del matrimonio di Mary [III.1]: durante la prima cena tutti insieme, per la quale Tom si è rifiutato di cambiarsi d’abito con somma costernazione di Lady Violet (“Is it an Irish tradition?”, chiede; ed ella stessa, presentata al fratello di Tom in III.7 lo definirà “gorilla”), il nuovo arrivato ha modo di offrire un “vivid display of Irish character” lamentandosi con veemenza dell’oppressione britannica sugli irlandesi. Alla fine però, simbolicamente accettando di vestire un morning coat adeguato al giorno delle nozze, anche Tom si trasforma da outsider (come egli definisce se stesso e Matthew) a membro della famiglia.
Inoltre, all’interno dell’élite Crawley è possibile assistere ad un costante confronto con la cultura della più grande colonia inglese: Cora, la moglie di Lord Grantham, è originaria di New York. Il matrimonio tra i due, avvenuto trent’anni prima per motivi di denaro – la famiglia rischiava di perdere Downton e Cora disponeva di una dote molto sostanziosa – non era stato particolarmente benvisto dalla contessa madre, e sebbene con il tempo Cora sia divenuta quasi “più realista del re” (nella seconda stagione, sarà la prima e la più feroce ad osteggiare la riqualificazione della grande casa in convalescenziario per i feriti di guerra), la sua americanità è spesso oggetto di battute e di (lieve) conflitto. Quando ella chiede alla contessa madre se la famiglia di Evelyn Napier sia di antico lignaggio, l’anziana Violet le risponde: “Più antico del tuo sicuramente”; quando propone a Mary di sposare Matthew nonostante i suoi modi siano spiccatamente borghesi, la figlia ribatte: “Tu sei americana, non puoi capire”; e anche quando ella propone al marito di considerare l’ipotesi che Sybil possa sposare Branson, la reazione di lui è: “Se vuoi fare l’americana con me, scendo al piano di sotto.” Alla fine del Christmas Episode che chiude la seconda stagione, quando ormai lo scandalo a proposito di Mary e Pamuk rischia di venire alla luce, l’intera famiglia decide che la giovane vada a stare per un po’ a New York: l’America sembra essere da loro considerata una sorta di moderna colonia penale.
La più eclatante dimostrazione del contrasto tra la cultura inglese e quella americana è però rappresentato all’inizio della terza stagione, quando in occasione del matrimonio di Mary giunge a Downton la madre di Cora, la signora Martha Levinson (interpretata da Shirley MacLaine). Gli scambi di battute tra lei e la matriarca dei Crawley sono molto espressivi; Lady Violet dichiara che quando vede la consuocera le tornano alla mente (per contrasto) le virtù degli inglesi, e si rivolge alla stessa Mrs Levinson rimproverandola del fatto che “voi americani non capite mai l’importanza della tradizione”. A questo biasimo la signora ribatte che forse sarebbe ora che l’Europa permettesse al mondo di gestirsi da solo. Del resto nemmeno Mrs Levinson si risparmia di criticare gli inglesi per la loro immobilità e la loro refrattarietà al progresso – dice a Mary di voler sapere tutto sui preparativi delle nozze in modo tale da poter lei stessa apportare i dovuti miglioramenti. La sua cameriera scende nelle cucine di Downton per spiegare che alla signora deve essere servita acqua fatta precedentemente bollire – una richiesta che fa solo quando si trova in Inghilterra. Evidentemente l’asserita supremazia della cultura inglese non ha più molta presa sugli “stranieri”, che non dimostrano più alcun timore reverenziale. Durante una conversazione con la cugina Isabel, che si occupa di beneficenza, Mrs Levinson le chiede se debba contribuire con del denaro, aggiungendo: “Isn’t that what the English expect from rich Americans?”. Nei modi di questa schietta americana ospite a Downton Abbey, l’Inghilterra è raffigurata come un’anziana signora ormai paralitica, neanche troppo pulita, che ha costantemente bisogno dei suoi figli più giovani per tentare di sopravvivere.

24 ottobre 2013

Hallowe'en Party

Qui a Berlino le decorazioni per Halloween abbondano, e i tramonti degli ultimi giorni, riflessi sulle foglie color ruggine, oro e arancione dei parchi e dei boschi di questa città non fanno che allietare l'atmosfera. Camminare nel cuore del Tiergarten o lungo la passeggiata che parte dalla stazione di Bellevue e raggiunge l'omonimo castello lungo la Sprea fiancheggiata dagli alberi e dai lampioni è un'immersione nel colore: la luce s'infiltra tra le fronde facendole brillare, gli aliti di vento scuotono piano i rami e lasciano scendere a terra cascate di foglie dai colori roventi, che si ammassano sulle loro compagne già cadute. 
Berlino, Bellevue. Foto di Mara Barbuni (2013)
In occasione della vicina vigilia di Ognissanti e della mia riscoperta del mondo di Agatha Christie ho letto Hallowe'en Party (in italiano: Poirot e la strage degli innocenti), che oltre ad essere un ottimo romanzo del mistero è un omaggio alla vegetazione autunnale. Protagonista geografico della storia è uno splendido giardino, un luogo che secondo la definizione dello stesso detective è talmente pieno di bellezza da apparire pericoloso. "Adesso era autunno e anche all'autunno si era provveduto regalando al giardino il rosso e l'oro degli aceri, tra i quali si snodava un sentiero che conduceva intorno ad altre delizie. C'erano dei cespugli di ginestra in fiore... o forse d'erica. [...] Poirot guardò un arbusto di uno speciale rosso dorato che incorniciava qualcosa. E per non un attimo non capì se ciò che vedeva esisteva realmente oppure era un semplice gioco di luci, ombre, foglie. [...] Quello dove si trovava non era un giardino inglese. Aveva un'atmosfera speciale, [...] fatta di magia, d'incanto, di bellezza, una bellezza insieme schiva e selvaggia. Chi avesse scelto quel giardino come scena teatrale vi avrebbe trovato ninfe e fauni, armonia classica e paura. Sì, in quel giardino c'era la paura."
La bellezza e la paura sono i due leitmotiv di questo romanzo. Uno dei protagonisti è un uomo di una bellezza sorprendente, innamorato di se stesso tanto che Poirot lo chiama "Narciso"; e la paura è un filo rosso che scorre tremante dall'inizio alla fine della vicenda, tirato e fatto vibrare da frequentissimi richiami alla follia, ai manicomi, agli psicopatici che appaiono persone normali e pacifiche e poi passano il tempo a commettere omicidi. L'aspetto particolarmente inquietante di questa storia è la presenza dei bambini e degli adolescenti, di cui gli adulti parlano con accenti terrificanti: la prima vittima è una ragazzina accusata da tutti di essere una bugiarda, la seconda un bambino definito sgradevole, "spione" e colpevole di ricatto; Poirot e i suoi interlocutori parlano di creature di sette-otto anni che si macchiano di un assassinio....
Il libro fu scritto nel 1969, molto più in là dunque della Golden Age degli anni Trenta, e forse anche per questo è più spaventoso, perché più vicino al nostro modo di vivere, e non più addolcito, nella nostra mente, da quelle confortanti visioni di gonne a sbuffo, bustini, giacchine di lana e auto d'epoca. Tra le righe si trovano persino parole come "computer" e "LSD"... e il messaggio finale, con questa insistenza a proposito della depravazione giovanile, ci lascia con l'amaro in bocca, nonostante l'esperienza di una lettura, come al solito, perfetta.
Il film che dal libro è stato tratto ("Agatha Christie's Poirot", serie 12, ep. 2) mi è parso meno oscuro, sia per l'ambientazione decisamente precedente all'epoca della pubblicazione che per la splendente magnificenza del giardino, sia per la rappresentazione di bambini molto più rassicuranti che per l'indulgenza sui più familiari simboli di Halloween: le zucche, la strega, la "storia del terrore" raccontata da Poirot davanti al camino acceso. Un'ottima oretta e mezza da trascorrere, mercoledì prossimo, con una cioccolata calda fra le mani e una ghignante Jack o' Lantern accesa appoggiata sul balcone, a sfidare il buio.

20 ottobre 2013

Agatha Christie

Mercoledì prossimo, sulla rete britannica ITV, sarà l'inizio della fine. Dal 23 ottobre infatti cominciano ad essere trasmessi gli ultimi (ma proprio gli ultimi) episodi di "Agatha Christie's Poirot", la serie che dal 1989 diletta i fan della più grande giallista di tutti i tempi, grazie ai costumi, alle ambientazioni e all'interpretazione di David Suchet, l'unico attore ad aver vestito i panni dell'investigatore belga per l'intero canone. I film già programmati sono "The Big Four" (trasposizione di Poirot e i quattro) e "Dead Man's Folly" (La sagra del delitto, in onda la settimana successiva), mentre gli altri due, "The Labours of Hercule" (Le fatiche di Hercule) e "Curtain" (Sipario), concluderanno il 2013 e apriranno il 2014.
Miss Lemon, l'ispettore Japp, Poirot e Hastings
negli ultimi episodi della serie "Agatha Christie's Poirot"
(agathachristie.com)
Questa ricorrenza, insieme alla rilettura di Le fatiche di Hercule e di The House at Riverton di Kate Morton, in cui la protagonista Grace incontra Agatha Christie nel corso di una cena a casa dei suoi padroni, ha stimolato il mio interesse per la biografia dell'autrice, di cui non mi ero mai occupata, e per la genesi delle sue ottanta opere. Ho così scoperto un grande mondo di appassionati e di critici, e il sito agathachristie.com, straordinariamente ricco di informazioni, curiosità e suggerimenti di lettura.
Come prevedibile, il desiderio di procurarmi tutti i libri di Christie o almeno la serie di Poirot, e le auto/biografie, è diventato un pungolo insistente: la signora pare infatti essere stata un personaggio intrigante e meraviglioso come il suo protagonista.
La sua An Autobiography si apre con righe che poco sembrano adattarsi ad una scrittrice così dedita ad avvelenamenti, sangue, beghe familiari e tragedie della gelosia: "Una delle cose più fortunate che può succedere nella vita è avere un'infanzia felice. La mia è stata molto felice. Avevo una casa e un giardino che amavo; una tata saggia e paziente; e per padre e madre due persone che si amavano tanto e furono una eccellente coppia di coniugi e di genitori".
La breve raccolta Clues to Christie, che ho iniziato a leggere proprio ieri sera, che comprende tre racconti e una interessante introduzione a cura dell'esperto John Curran, ha acceso, per me che non ne sapevo nulla, una piacevole luce sulla vita della Regina del Mistero, rivelando aspetti della sua esistenza che offrono molte spiegazioni sulla natura delle sue storie.  
Agatha Miller nacque a Torquay (Devonshire), nelle vicinanze della Cornovaglia, nel 1890. La sua infanzia fu davvero felice come racconta la sua autobiografia, e nonostante la morte del padre quando lei aveva solo undici anni, anche la sua giovinezza non fu da meno. Poté infatti viaggiare, appassionarsi al teatro, studiare musica a Parigi e ricevere diverse offerte di matrimonio. Decise però di sposare Archie Christie (1914) e, con l'inizio della guerra, di lavorare come dispensiera volontaria all'ospedale. Ecco una spiegazione per la sua straordinaria conoscenza dei tipi e degli effetti dei diversi veleni....
Nel 1926 il suo paradiso si infranse con la morte della madre e con la richiesta di divorzio da parte del marito, in conseguenza della quale si verificò un episodio clamoroso e inquietante.
Il 3 dicembre di quell'anno, infatti, Agatha scomparve dalla sua casa. Venne ritrovata dieci giorni dopo in un albergo della città termale di Harrogate, sola, registrata con un nome falso, e completamente dimentica di quanto accaduto. Il mistero che circondò la sua sparizione (allora i suoi libri erano già estremamente celebri, e proprio in quell'anno The Murder of Roger Ackroyd stava godendo di un enorme successo) fece grande scalpore, e persino Arthur Conan Doyle fu convocato per cercare una possibile soluzione. Oggi i medici hanno trovato una spiegazione scientifica all'episodio definendolo "trance psicogenica", ovvero una rara condizione di amnesia dovuta allo stress e alla depressione (per maggiori dettagli: http://www.theguardian.com/uk/2006/oct/15/books.booksnews).
L'età d'oro della scrittura di Christie viene fatta iniziare nel 1930, con The Murder at the Vicarage (La morte nel villaggio), il primo romanzo in cui fa la sua comparsa Miss Marple. Nel ventennio successivo l'autrice pubblicò circa due romanzi all'anno, tra cui Se morisse mio marito, Assassinio sull'Orient Express, Il Natale di Poirot, Dieci piccoli indiani, C'è un cadavere in biblioteca.
Immagine tratta da flickr.com
Sempre nel 1930 Christie si sposò una seconda volta, con l'archeologo Max Mallowan, che la portò con sé nel corso dei suoi viaggi: nei lunghi mesi passati - con sua grande gioia - presso gli scavi, ella poté contare su una semplice macchina da scrivere per produrre i capolavori ambientati nella morsa dell'aria assolata: Assassinio in Mesopotamia, Assassinio sul Nilo, Appuntamento con la morte e They Came to Baghdad (Il mondo è in pericolo), che è il primo romanzo di Christie che io abbia letto in assoluto, al mare, quand'ero bambina.
Con l'acquisto di Greenway House (solo una giornata troppo piovosa mi ha impedito di visitarla durante il mio viaggio in Conovaglia...) nel 1938, Agatha riprese a condurre una vita molto serena, fatta di partite a tennis, nuotate, feste con gli amici, tè pomeridiani e canzoni al pianoforte, e un sontuoso giardino.
Nel 1956 fu nominata Commander of the British Empire dalla Regina Elisabetta, e acquisì il titolo di Dame nel 1971; nel 1972 si festeggiarono i vent'anni sulle scene di Trappola per topi e nel 1974 ella fece la sua ultima apparizione pubblica, a Londra, per la premiere del film Murder on the Orient Express. Morì due anni dopo, non prima di aver pubblicato Curtain: Poirot's Last Case (Sipario: l'ultimo caso di Poirot), scritto durante i bombardamenti di Londra, e che giaceva da venticinque anni nel caveau di una banca.
 
 
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22 settembre 2013

La parola alla città

In occasione del mio ennesimo (e speriamo l'ultimo, almeno per un po'...) trasloco nel nuovo appartamento del quartiere di Friedrichshain, torno a parlarvi di Berlino.
E lo faccio approfittando della mia lettura più recente, che fa del nome della città il proprio titolo, infilato come una freccia su una copertina dalle reminiscenze cubiste. Berlin è infatti il libro che Eraldo Affinati (pochi giorni fa ospite al Festival della Letteratura di Mantova) ha dedicato al mondo variegato e dalla storia pesante racchiuso fra i confini della capitale tedesca. Il Prologo è un incipit memorabile, e racchiude in poche righe le sensazioni che tutti i visitatori consapevoli provano quando arrivano in Germania: "Man mano che mi avvicinavo, le fattezze berlinesi parevano prendere consistenza: nella modernità lancinante di Hannover, sul portone delle tesi luterane di Wittenberg, in quella stupenda aria di nobiltà che mi comunicò Lipsia. A Düsseldorf, nei pressi del Reno, dove le autostrade entrano in città alla maniera di spade nel fodero; perfino nello scarto drammatico fra l'altura minacciosa di Buchenwald, dove Goethe veniva a meditare sotto l'albero e i deportati morirono a migliaia, e lo straordinario centro storico di Weimar, culla della civiltà occidentale. In tutti questi luoghi sentivo battere il cuore elettrico di Berlino: ne registravo la scansione che, insieme ai fantasmi del passato, mi spingeva a superare il Novecento, in avanti, verso il futuro, ma anche indietro, nei secoli trascorsi".
Così, con una sentita ode alle bellezze della Germania (a noi forse poco note, perché certe ferite nella memoria collettiva sono difficili da guarire...), Affinati entra nella città, e ansioso solamente di una lunga passeggiata, sembra abbandonare la penna dello scrittore e lasciare la parola a lei stessa, ai monumenti, agli alberi, alle voci dei ricordi, ai passanti che incontra sulla sua via. Noi lettori siamo chiamati a seguirlo e restiamo incantati dal suo modo delicato di raccontare e dal suo sguardo attento, vivido, che attira la nostra attenzione su grandi distese e piccoli dettagli, sulla normalità contemporanea e sulla maestosità del passato.
Il libro, diviso in sette capitoli intitolato ciascuno a un giorno della settimana (può essere usato anche come guida) e a un pronome personale, è un cicerone che ci invita a chiacchierare con Berlino, e ad ascoltarla: parliamo con la Siegessaeule, con Friedrichstrasse, con i resti del Muro, con la Porta di Brandeburgo, con le statue di Marx ed Engels, con la torre della televisione, con i negozi, con il currywurst, con Friedrich Schiller e Marlene Dietrich, con il Brachiosauro del Museo di Storia Naturale, con le piazze e con Checkpoint Charlie, con il Parlamento e Einstein, con il castello di Sanssouci e il caffè di Starbucks, con i quadri della pinacoteca, con le fermate della metropolitana e con Max Frisch, le ambasciate e gli zoo, i musei e i monumenti, la birra, l'Oberbaumbruecke.
  
Il ponte Oberbaum, simbolo di Friedrichshain
E così finiamo proprio a Friedrichshain, la mia nuova casa. A questo quartiere ("Bezirk") Affinati dedica un pensiero forte, ispirato dalla Frankfurter Allee che lo attraversa e che fu teatro dell'ultima vittoria dei russi contro le difese naziste: questo Bezirk è infatti il simbolo dell'identità di Berlino, delle sue cadute e le sue vittorie, del suo essere "il fucile e insieme il bersaglio del Novecento". I suoi enormi viali, con la torre di Alexanderplatz sullo sfondo del cielo nuvoloso, ci ricordano che le ferite della Storia sanguinano, si rimarginano e si riaprono ancora, in un costante ricorso di dolore e di evoluzione. E che le sue orme non devono mai essere cancellate.

16 settembre 2013

I colori del Romanticismo

Al terzo piano della Alte Nationalgalerie di Berlino si entra in una sala che toglie il fiato. È la raccolta di dipinti di Caspar David Friedrich, il pittore tedesco che, insieme a J.M.W. Turner, è il più intenso ritrattista della temperie romantica. Romanticismo è una parola difficile, usata spesso nel modo sbagliato (con il significato limitato più consono al concetto di "romance") e bistrattata dall'inconsapevolezza o dalla dimenticanza delle sue travolgenti ripercussioni sull'intera cultura occidentale. Guardando i quadri di Friedrich si riesce invece a sussumere, in un unico respiro, tutto il reale significato di questo movimento rivoluzionario, e a comprenderne le più diverse manifestazioni.
 
Non è solo il celeberrimo "Wanderer" (Viandante sul mare di nebbia, Kunsthalle Hamburg) a raccontare la natura spirituale e solipsistica di questo fondamentale stadio del pensiero europeo; i dipinti esposti alle Alte Nationalgalerie interpretano questa particolare forma dell'anima dell'uomo con una profondità e totalità che permettono di capire, in un istante di organica percezione, tutte le sue altre fondamentali estrinsecazioni, pur diverse per linguaggio e per origine geografica. Ammirando i personaggi scuri di Friedrich, intenti a loro volta a contemplare la luna, si comprende l'immensità di un Notturno di Chopin; le rovine dell'abbazia ghermite da neri rami spogli visualizzano il movimento gotico, la poesia ossianica e i Sepolcri di Foscolo; la montagna innevata ci ricorda le escursioni di Wordsworth sulle Alpi, e la celebrazione della giovinezza nei versi del suo Preludio. E in generale tutta la pittura di Friedrich rende così immediato capire cosa significasse il "sublime" teorizzato prima da Kant (Critica del giudizio) e poi da Burke (On the Sublime), e aiuta forse anche a entrare nell'infinito leopardiano, quello spazio che non è del mondo terreno, ma appartiene piuttosto all'interiorità. Di fronte a questi dipinti ci si immerge nell'idea della distanza, del titanismo, della solitudine, della forza dell'immaginazione e della potenza immortale della poesia.