24 settembre 2014

Sei romanzi perfetti

È confortante sapere che, oltre a un catalizzatore di clamorose passioni, facili entusiasmi e manifestazioni idolatriche, Jane Austen è ancora il soggetto di una felice e ben riuscita analisi critico-letteraria.
Leggere Sei romanzi perfetti di Liliana Rampello (Il Saggiatore, 2014) mi ha restituito quello che io ritengo il valore più puro e autentico dell’amore per questa scrittrice, ovvero il riconoscimento del suo talento narrativo e stilistico e della perfezione della sua scelta linguistica.
Il saggio, strutturato con estremo ordine, percorre con grande concentrazione le trame del corpus canonico di Austen, ma allo stesso tempo si dedica ad analisi puntuali di un ricchissimo sottotesto teorico. Le citazioni da grandi critici come Auerbach, Moretti, Praz, Steiner, Watt, Woolf e tanti altri, lungi dallo spaventare o allontanare il lettore appassionato, lo attirano verso il discorso aprendogli dimensioni di comprensione forse mai sperimentate prima.
I grandi temi che questo saggio affronta sono importanti per il loro relazionarsi con i romanzi di Austen ma anche per la loro valenza universale: sono la libertà, la parola e il dialogo, la formazione individuale e la coscienza del sé, la convivenza tra uomini e donne nel contesto sociale, il conflitto e l’evoluzione storica delle classi, il rapporto tra evento narrato e luogo della narrazione (il microcosmo della scena e il macrocosmo dello “stato-nazione” europeo). In nome di queste amplissime categorie Liliana Rampello si propone di conoscere, riconoscere e ripresentare i personaggi (soprattutto femminili) di Jane Austen; e le sue argomentazioni, ricche e chiare, si soffermano a illuminare aspetti di Elizabeth, Emma, Anne, Fanny, Mary, Marianne ed Elinor che stimolano le riflessioni anche del lettore austeniano più esperto.
La trattazione più affascinante (perché questo saggio, oltre a essere preciso e competente, è anche “bello” da leggere) è stata per me quella di Persuasione. In Anne Elliot Liliana Rampello vede la personificazione di una “donna nuova” che innanzitutto è il nostro unico veicolo di conoscenza della storia che la vede protagonista, e in secondo luogo è il simbolo dell’affermazione di un’autocoscienza individuale e sociale – quella della “donna” da un lato e quella della nuova classe dominante dall’altro (la borghesia delle “professioni” cui appartiene il Capitano Wentworth, che Anne preferisce a un’aristocrazia ormai esausta).
In conclusione, Sei romanzi perfetti è una lettura decisamente consigliabile, perché ha la virtù di saper accontentare tutti i tipi di lettori: sia coloro che conoscono molto bene Jane Austen sia coloro che l’hanno letta solo raramente; sia chi si lascia avvincere dalla bellezza immediata dei suoi romanzi sia chi vi ricerchi strati più profondi di significato.

17 settembre 2014

La cugina Phillis

Quando si entra nel mondo della narrativa di Elizabeth Gaskell, ci si deve preparare a trovare lungo il cammino tante e variegate forme di racconto. 
Il romanzo con cui io ho varcato questa soglia, ormai dodici anni fa, è stato North and South (che dal 2011 si può trovare anche in versione italiana, tradotto da L. Pecoraro per Jo March). Nord e Sud appartiene al gruppo dei romanzi “sociali” di Mrs. Gaskell, insieme a Mary Barton e a Ruth, storie in cui l’autrice riversò tutta la sua conoscenza e la sua esperienza della vita delle classi povere e disagiate; Elizabeth fu sempre sensibile ai drammi degli strati più bisognosi della popolazione: era solita visitare le loro case, aiutare in prima persona, organizzare per loro opere di beneficenza e di istruzione. Con Nord e Sud io scoprii una scrittrice eccezionale, della quale volevo conoscere il più possibile: mi feci dunque spedire dall’Inghilterra Sylvia’s Lovers (Gli innamorati di Sylvia, che poi ho tradotto per Jo March, 2014), Cranford e Cousin Phillis (in un unico volume Penguin), una raccolta di racconti gotici e Wives and Daughters. (Traducibile in Mogli e figlie, questo romanzo, non ancora disponibile in italiano, segna l’apice della scrittura gaskelliana, non solo perché è l’ultimo, ma soprattutto perché è il suo capolavoro stilistico.) 
Questa settimana ho voluto rileggere Cousin Phillis (disponibile in inglese, gratuitamente, su gutenberg.org e in italiano, con il titolo Mia cugina Phillis, nell’ottima traduzione di Francesco Marroni per Marsilio, 2001). Questo romanzo breve – o racconto lungo – è una vera e propria gemma, il risultato perfetto della fusione di una scrittura ormai matura, sapiente e controllata, con una storia semplice e delicata ma intensissima nelle emozioni e nella rievocazione dell'ambiente (cifra stilistica nonché supremo talento di Elizabeth Gaskell), del quale ci sembra di vedere i colori e di sentire le voci e i profumi. Mia cugina Phillis è come un nastro di lucida seta, che unisce Gli innamorati di Sylvia e Mogli e figlie: la protagonista è l’adolescenza femminile, il contesto della storia ha un ruolo così dominante da diventare quasi un personaggio (Monkshaven, la fattoria degli Holman e Hollingford sono cornici senza le quali il dipinto perderebbe gran parte del suo significato), e il racconto è centrato sulla maturazione di un amore sofferto. 
Fondamentale e unica in Mia cugina Phillis è la dimensione del ricordo. Quasi come in un riflesso di poesia wordsworthiana (penso al Prelude o a Tintern Abbey: Elizabeth amava tantissimo Wordsworth, che era il suo poeta preferito insieme a Tennyson), il narratore, Paul, rievoca i giorni della sua giovinezza e della sua frequentazione con la cugina Phillis Holman e i suoi genitori. La ragazza è una contadina, come Sylvia, ma suo padre, ministro della chiesa, l’ha educata a leggere il latino, il greco, e la Divina Commedia in lingua originale, cosicché, quando noi, insieme a Paul, la incontriamo per la prima volta, Phillis è una giovane donna consapevole di sé, forte, di una bellezza che riflette anche le profondità dei suoi pensieri: “Mi guardò fisso in volto, con occhi grandi, tranquilli, dall’espressione interrogativa, ma niente affatto turbati dalla vista di uno sconosciuto” (qui e in seguito le traduzioni sono mie). Straordinaria è l’immagine che ci viene data di lei intenta a leggere: “Una corrente d’aria proveniente da una fonte invisibile aprì leggermente la porta di comunicazione con la cucina […]; e io vidi parte della sua figura seduta al tavolo, mentre lei sbucciava le mele con destrezza, e insieme voltava ripetutamente il capo verso un libro appoggiato accanto a lei.” 
Istantanea della campagna inglese. Foto di Mara Barbuni, 2014
Il romanzo è permeato di descrizioni della natura circostante: cresciuta a sua volta in campagna, che amò per tutta la sua vita, Elizabeth è una perfetta pittrice dell’esistenza rurale, dei suoi ritmi quieti e delle sue tradizioni arcaiche. Il punto culminante della sua attenzione per l’armonia dell’umanità dentro la natura è, in Mia cugina Phillis, il passo dedicato alla raccolta delle mele: “Di notte arrivava il gelo, la mattina e la sera c’era foschia, ma a metà giornata il tempo era soleggiato e luminoso […]. Trovammo grandi cesti ricolmi di mele, che profumavano tutta la casa e ingombravano il passaggio, e un’aria universale di gaia contentezza […]. Le foglie gialle pendevano dagli alberi, pronte a cadere fluttuando per il primo soffio d’aria; i grandi arbusti di margherite di San Michele nell’orto facevano mostra della loro ultima fioritura.” E anche Phillis è come un fiore, che cresce e sboccia nel calore dell’aspettativa (“Mia cugina Phillis era come una rosa, che raggiunge il suo massimo fulgore lungo il lato esposto al sole di una casa solitaria, riparato dalle tempeste”) e poi rischia di appassire nel gelo della disillusione inflittale dalla lettera di Holdsworth: “Il mio cuore era gonfio. Come tutto sembrava pacifico nella fattoria! […] Com’era immobile e profondo il silenzio nella casa! Tic tac, procedeva l’orologio invisibile sull’ampia scala. Sentii che lei aveva voltato il foglio di carta sottile. Doveva aver letto fino alla fine. Eppure non si mosse, non disse una parola, non sospirò neppure”; “Phillis non parlò, ma guardò fuori dalla finestra aperta, verso la grande e quieta luna, che si muoveva piano sul cielo del crepuscolo. Pensai che i suoi occhi si stessero riempiendo di lacrime.” 
Sarà Molly Gibson, la protagonista di Mogli e figlie, a continuare la storia di Phillis per condurla verso il lieto fine. Le ragazze cadono vittima della stessa malattia, quella “febbre cerebrale” così frequente nella narrativa ottocentesca (ne soffrono anche Madame Bovary e Anna Karenina), iniziata sempre a causa di una insopportabile sofferenza emotiva; ma mentre Mia cugina Phillis si chiude su una guarigione ancora minacciata dalla debolezza, Mogli e figlie apre per Molly un futuro più luminoso. E la sua prospettiva finale di felicità segna il vero coronamento di una scrittura, quella di Elizabeth Gaskell, dedicata interamente all’analisi dei sentimenti umani.

7 settembre 2014

La vita segreta di Bletchley Park

Questa settimana abbiamo ricordato i settantacinque anni dall’inizio della seconda guerra mondiale. Nonostante il passare del tempo, la storia del conflitto rimane viva - per chi la vuole ascoltare - grazie alle testimonianze ancora presenti e alle decine, centinaia di libri (saggi e romanzi) che l’hanno raccontata, e che – com’è compito della letteratura – hanno tentato e tentano di insegnarci a non ripetere i tragici errori già compiuti. 
Questa settimana io ho concluso la lettura di un corposo volume dedicato a un singolo aspetto, molto particolare, di quel conflitto – una pagina sui generis, che però ha cambiato le sorti della guerra e ha impedito con strenua forza di volontà la caduta dell’Europa nell’abisso. The Secret Life of Bletchley Park di Sinclair McKay (non c’è traduzione italiana, purtroppo) racconta la storia di quella straordinaria dimora sperduta nel Buckinghamshire (a 75 km da Londra) dove poco prima dello scoppio della guerra iniziarono a radunarsi i più brillanti geni inglesi della matematica e della linguistica (ma anche dell’egittologia e persino dell’astrologia). Giovani arruolati direttamente nelle università, rampolli di famiglie nobili, ma anche ragazzini e ragazzine senza speranze, si trasferirono nella tenuta di Bletchley Park e lì, con turni di lavoro sfiancanti, condizioni di vita spartane e il più severo obbligo di segretezza (la verità sui loro incarichi fu resa pubblica solo trent’anni dopo), lavorarono alla decrittazione dei codici di Enigma, l’infernale macchina con cui i nazisti cifravano i loro messaggi. 
Bletchley Park
La forza del libro, che non è un romanzo, ma è basato interamente sulle testimonianze dei protagonisti di quel tempo, sta nel suo talento di rievocazione di un luogo, di un’epoca, di una generazione. “La facciata della casa dava sulla città, ma qualsiasi scorcio di Bletchley era oscurato dagli alberi. L’unico aspetto che ricordasse l’esistenza del mondo esterno erano le grida distanti del fischio del treno, che riecheggiavano nell’aria primaverile” (qui e altrove, la traduzione è mia). “Tutti i giorni, dopo pranzo, quando il tempo era favorevole, i decrittatori giocavano a rounders [gioco simile al baseball] sul prato della grande casa, con quell’atteggiamento semiserio ostentato dai docenti universitari quando sono impegnati in attività che potrebbero essere considerate frivole o insignificanti, se paragonate con i loro più importanti studi. Così, essi erano soliti discutere per un punto della partita con lo stesso fervore con cui avrebbero dibattuto la questione del libero arbitrio o del determinismo, o se il mondo sia iniziato con il big bang o con un processo di creazione continua.” 
Ma The Secret Life of Bletchley Park è anche avvincente per la sua accurata descrizione di Enigma: simile a una macchina da scrivere, il congegno era stato messo in vendita nel 1923, e dapprincipio era stato acquistato soprattutto da banchieri che desideravano mantenere segrete le loro comunicazioni. Quando la marina tedesca acquisì il sistema (dopo che il ministero degli esteri britannico l’aveva ritenuto grossolano e inadatto), lo tolse dal mercato, lo modificò, e lo trasformò nell’elaboratore di codici che rimasero per lungo tempo inaccessibili. Il principio di Enigma era il seguente: “le macchine Enigma cifravano i messaggi e, una volta che questi raggiungevano la loro destinazione, li decrittavano. L’operatore pigiava un tasto sulla tastiera normale; un paio di secondi dopo, tramite corrente elettrica convogliata nelle ruote con le lettere del codice, una lettera diversa si accendeva sull’adiacente tastiera a caratteri luminosi. 
Enigma
L’operatore prendeva nota di questa seconda lettera. E così via, per tutti i caratteri che componevano un messaggio. La versione cifrata veniva poi comunicata via radio in codice Morse al suo destinatario. Costui, che aveva una macchina Enigma configurata allo stesso identico modo, digitava le lettere codificate una a una – e una a una, quelle vere si illuminavano sulla sua tastiera a caratteri luminosi.” Il solo – terribile – compito delle reclute di Bletchley Park era decrittare i codici. E ci riuscirono: il loro lavoro, secondo il presidente Eisenhower, abbreviò la durata della guerra di almeno due anni, ma secondo altri storici l’apporto fornito al mondo dalla compagine di decrittatori chiusi nel segreto e nei confini di quel parco nel Buckinghamshire sarebbe anche più significativo. E non solo ai fini della vittoria del conflitto. Nelle fila di quei giovani talenti condannati all’oblio (del loro straordinario impegno non poterono né parlare né scrivere per decenni) si trovava infatti anche il dottor Alan Turing, considerato il padre della scienza informatica e dell’intelligenza artificiale. Turing sviluppò un sistema (“macchina di Turing”) che riuscì a decifrare in velocità e con efficienza i codici formulati dalla macchina tedesca derivata da Enigma. La vita privata di questo incredibile genio, però, non gli riservò le soddisfazioni che egli avrebbe meritato. Accusato di omosessualità in un periodo in cui la legge inglese lo considerava ancora un reato, Turing fu condannato alla castrazione chimica. Morì suicida, mangiando una mela avvelenata al cianuro, nel 1954. Le scuse del governo britannico (“per conto del governo britannico, e di tutti coloro che vivono liberi grazie al lavoro di Alan, sono orgoglioso di dire: ci dispiace, avresti meritato di meglio” dichiarò l’allora premier Gordon Brown) giunsero nel 2009; la grazia da parte della sovrana fu elargita nel 2013.

3 settembre 2014

Ai giovanissimi che amano la letteratura

Care ragazze e cari ragazzi, ci sono cose che, per quanto amare, è bene che vengano dette e ascoltate. Penso che se qualcuno avesse spiegato a me ciò che sto per dire a voi sarebbe stato meglio. Amate la letteratura, i libri, la storia dell'arte, la storia, la filosofia... e vi piacerebbe che la vostra passione e le vostre conoscenze vi aprissero un posto di lavoro (come accade per tanti altri tipi di conoscenze)? Mi sembra normale. Magari vi piacerebbe persino diventare insegnanti, cosicché quella passione e quelle conoscenze aiutassero un giorno ragazzi come voi a crescere più consapevoli, più aperti, più tolleranti, più giusti. Oppure vi piacerebbe diventare ricercatori, per aiutare a incrementare la sapienza globale. Bene, lasciate perdere. Insegnanti non lo diventerete mai. L'avete sentito, è notizia di oggi. Con la cancellazione delle graduatorie della scuola pubblica previsto per i prossimi anni... non ci sarà più posto per voi. Se proprio avete una passione smodata per l'insegnamento potreste sperare di ottenere un posto di lavoro in una scuola paritaria, ma sappiate che molte sono inaccessibili, e in alcune - tante - non si viene pagati. Per quanto riguarda la carriera accademica, vi dico solo questo: non laureatevi (almeno per la Specialistica) in Italia. Andate altrove: Regno Unito, Germania, Scandinavia. Studiate lì, così avrete la possibilità di fare poi un dottorato che valga qualcosa per la vostra carriera, e di conseguenza un post-dottorato che vi consenta di fare esperienza non solo di ricerca ma anche di insegnamento universitario (cosa che in Italia non avviene). Altrimenti sappiate che... beh, entrare nelle case editrici è quasi un'utopia (c'è un'altissima probabilità che non vi rispondano neppure, quando manderete loro il vostro CV); lavorare nelle biblioteche è una procedura molto complessa, interna al campo della Pubblica Amministrazione, e comunque è il caso di specializzarsi in materie specifiche, come la biblioteconomia (corso di laurea che io personalmente, se avessi la vostra età, frequenterei subito); per diventare traduttori letterari... è giusto che vi dica che avete la stessa possibilità di ricevere un incarico di qualcuno che i vostri titoli non li ha, e comunque è un mestiere che solo in rari casi garantisce uno stipendio regolare (come invece sono regolari le rate della macchina, l'affitto, le bollette, etc.). Per non dire che le vostre alte qualifiche vi renderanno sempre poco appetibili nel mercato del lavoro, perché, proprio in virtù delle vostre qualifiche, si temerà sempre di dovervi pagare troppo, e si sceglierà dunque qualcun altro. Ripeto, lasciate perdere. Trovatevi un lavoro qualsiasi appena finita la scuola, o se proprio volete continuare a studiare (sicuri?), scegliete una facoltà "tecnica" (economia, business, gestione d'impresa, marketing, informatica, quello che volete, basta che siano campi dove si "fanno i soldi"), e non importa se non vi piace e se non vi sentite portati per quella materia! Non importa. Nel frattempo potrete dedicare alla letteratura, storia, arte, filosofia, musica, il vostro tempo libero. Perché, almeno in Italia, la letteratura e le altre scienze umanistiche non sono scienze (appunto), ma è roba da tempo libero. Vi consiglio quindi di restare nell'ambito degli "amatori" della letteratura, e di cercare altrove la fonte economica della sopravvivenza. Altra cosa: se intendete prendere delle certificazioni linguistiche, controllate prima quali sono accettate in Italia. Potrebbe essere, per esempio, che frequentiate un corso e sosteniate un esame di tedesco a Berlino - faccio per dire; ma in Italia non vi sarà riconosciuto, perché al Ministero non conoscono la società (che si chiama Società per la Lingua Tedesca, tanto per dire!) che l'ha organizzato.
Capisco che è triste leggere certe cose, ma sto cercando di essere onesta (visto che la nostra classe dirigente non lo è, o non ha il coraggio di parlare chiaro), e di pensare alle scelte che avrei fatto se qualcuno avesse spiegato tutto questo a me, un po' di anni fa. Considerate che, essendovi preclusa la strada dell'insegnamento (le cose stanno così, e chi sostiene il contrario mente), è proprio inutile frequentare dei corsi universitari di tipo umanistico. Serviranno solo a farvi invecchiare e guardare male dalla gente, che penserà che non fate nulla dal mattino alla sera, che avete scelto quella strada per non lavorare, etc. E non è piacevole. Se davvero credete di poter dare qualcosa di concreto alle scienze umanistiche, andate via, finché siete ancora giovani. Perché all'estero non si è giovani fino a quarant'anni. A trent'anni, all'estero, mentre in Italia ci si arrabatta alla ricerca di assegni di ricerca inesistenti o di contratti di insegnamento da fame, si è già docenti universitari. Un ultimo suggerimento, prezioso: se volete o dovete, per vari motivi, restare in Italia, vi consiglio di farvi conoscere quanto prima in qualche tipo di associazione - parrocchiale, di partito, di volontariato, di qualcosa. Ma non restate nell'ombra della vostra biblioteca, per carità. Pensateci.