14 gennaio 2020

Piccole donne, il film

Ieri sera sono stata al cinema a vedere Piccole donne, il capolavoro di Greta Gerwig. È difficile trovare il modo giusto per descriverne la qualità e l’immensa bellezza: forse l’unica strategia per riportare questa esperienza (ed è davvero stata un’esperienza) è ricorrere a una sequenza colpevolmente disordinata di momenti emotivi, di immagini, di attimi senza fiato. 
Il film è un intreccio costante tra i due grandi capitoli del romanzo: quello della fanciullezza (per noi Piccole donne) e quello della maturità (Piccole donne crescono). Tutta l’intensità della storia si gioca lì, su quel limite sottilissimo e strapieno di vita, quella linea impercettibile eppure severa, che segna il passaggio da un’epoca all’altra, da un’età all’altra. C’è grande sapienza, da parte della regista, nel tenere sempre in perfetto equilibrio i due piani narrativi; anzi, direi che c’è perfezione. C’è una scena – non è neanche una scena, è quasi un frammento, in verità – in cui l’abbandono dell’infanzia si mostra in tutta la sua potenza, quasi sacra: è un ricordo fugace di Jo, che da adulta ricorda un istante con Laurie. Un istante apparentemente insignificante, in cui lei gli ruba il cappello in un gesto d’affetto: ma è un momento di essere così travolgente da farci commuovere. 
Le quattro ragazze March sono quanto di meglio si sia mai visto. Meg è deliziosa. Beth non è (finalmente) costantemente sull’orlo del baratro, ma ci regala una dose di inedita vitalità che ci fa rimpiangere ancora di più la sua sorte. Amy è esattamente quello che io ho sempre visto in lei, a dispetto della lunga tradizione di condanne e opinioni denigratorie di milioni di lettori – Greta Gerwig dà finalmente a questo personaggio un volto che forse neanche Alcott era riuscita a conferire chiaramente, e che toccava al lettore intuire: in questo film Amy è limpida, radiosa, schietta, piena di passione, moderna, vivida, presente nel mondo e nella sua vita. 
E poi c’è Jo. Leggendo il libro si è portati naturalmente ad amare Jo. È come se non si potesse farne a meno, si viene trascinati verso questo affetto letterario, ma talvolta è come se non lo si sentisse per davvero. Il film, invece, ci mostra prepotente il motivo di tanto trasporto. Saoirse Ronan (l’attrice candidata all’Oscar per questo ruolo) entra del tutto in Jo, e ce la restituisce nuova, intelligente, padrona di sé, irrefrenabile. E l’effetto è a dir poco meraviglioso. 
La grandezza di questo film sta proprio nel dare una seconda vita alla storia. Il vittorianesimo americano dell’età di Alcott (ma anche di Thoreau, di Emerson, e dei pittori paesaggisti della Hudson River School) si libera di tutti i suoi oscuri stereotipi e al contrario splende di energia: ragazze che ridono, corrono, gridano, giocano sulla spiaggia, giovani uomini con i gli abiti e i capelli raffazzonati, feste da ballo in cui si alza un po’ il gomito, tentazioni a cui è difficile resistere, la paura esistenziale del fallimento che si trasforma in una posa di freddezza e in una finta, sofferente, negligenza. L’attore che interpreta Laurie (Timothée Chalamet, perfetto per attirare a questa storia le spettatrici più giovani) dimostra giusto il talento necessario per impersonare questo carattere, in bilico tra Ottocento ed età moderna. 
La rappresentazione che Gerwig fa della storia, e soprattutto il suo bellissimo finale (che non posso certo rivelare), ricamato sulla scena magistrale della rilegatura del romanzo di Jo, appartiene tutto al ventunesimo secolo, eppure, e proprio in virtù della sua perfetta aderenza alla contemporaneità, conserva la funzione vittoriana della trasmissione di un messaggio forte, di un insegnamento. In questo caso, il messaggio è la libertà delle donne: quella di Amy, quella di Jo, quella di Gerwig – e la nostra. 
I ragazzi e le ragazze di oggi dovrebbero proprio vederlo, questo film, perché è inequivocabilmente fatto per loro. Noi “grandi”, tuttavia, non ne siamo esclusi: il nostro destino è di commuoverci a cospetto della tenerezza della rivisitazione degli episodi centrali del libro, di stupirci di fronte alla sopraffina tecnica cinematografica, di incantarci per una fotografia di livello inestimabile, di apprezzare le minuzie della sceneggiatura e la qualità eccelsa della scenografia – la perfezione degli interni, la bellezza travolgente degli esterni. 
Le mie aspettative su quest’opera erano altissime. Non c’è stato un solo minuto, nelle due ore e un quarto del film, in cui siano state tradite.

5 gennaio 2020

Louisa e le piccole donne

Buon anno, cari lettori! Il 2020 di Ipsa Legit si apre con una riflessione su un libro squisitamente stagionale: Piccole donne, che in queste settimane è ritornato ad apparire nelle prime file delle librerie grazie all’uscita del nuovo omonimo film che ne è stato tratto, diretto da Greta Gerwig (il trailer si può vedere qui). 
Piccole donne e Piccole donne crescono, i due libri italiani in cui si è diviso l’unico volume originale di Little Women, ci hanno accompagnato per tutta la vita: io li lessi per la prima volta da bambina, poi li ripresi da adolescente e adesso, da adulta, ritorno talvolta a rileggerne qualche breve brano, per ritrovare nel testo la conferma a certi ricordi improvvisi o la gratificazione di quel gusto per la narrativa che non mi abbandona mai. Oggi, sui miei scaffali, Little Women è uno dei libri di cui vado più orgogliosa, perché è un’edizione del 1913 con una bellissima copertina in decori Art Deco che ho scovato in una libreria di seconda mano sull’isola di Wight. Come una storia nella storia. 
La mia attuale rilettura del libro, in attesa di vedere il film, è accompagnata da un’importante opera appena pubblicata, che ci offre un punto di vista attentissimo e decisamente affascinante sulla mente che ha ideato questo romanzo immortale. Si tratta di Louisa May Alcott. Una biografia di gruppo di Martha Sexton (a cura di Daniela Daniele), che solo pochi mesi fa è uscita nella sua prima edizione italiana grazie a Jo March – una casa editrice che ci ha abituato alle belle sorprese ma che ciononostante continua a stupirci per l’accuratezza e la passionalità delle sue scelte letterarie. Il libro appartiene alla collana “Christopher Columbus” e riporta la stessa straordinaria bellezza grafica dei volumi precedenti. 
Nella biografia di Martha Sexton troviamo rappresentazioni della vita di Louisa piene di suggestioni, soprattutto quando si concentrano sull’atto della scrittura: “A maggio, Luisa fece ritorno a casa per cominciare a scrivere Piccole donne. Lavorò alla sua piccola scrivania, grande appena da poter infilarci le ginocchia, sotto la finestra della sua camera. Scrisse per giornate intere, senza mai correggere o ripensare una sola parola”; “Lavorava assiduamente al suo scrittoio, completando ogni giorno un capitolo nuovo, vergato con una scrittura nitida e inclinata verso sinistra, che imprimeva con decisione sulla pagina, impugnando con forza il pennino d’acciaio”. Anche la casa di Concord attira lo sguardo del lettore, assorbendo e lasciandosi assorbire, come sempre accade, dalla personalità della scrittrice che le abita: “La stanza d’angolo di Louisa era quadrata, ariosa, e piena di luce con finestre sui lati. […] La piccola scrivania di Louisa era posta sotto le finestre anteriori, dalle quali entrava una morbida luce primaverile, filtrata attraverso gli alberi”. 
Foto dello scrittoio di Louisa May Alcott, di Annie Leibovitz,
tratta dal suo libro Pilgrimage
Penso che questa luminosità filtrata, accompagnata dai profumi delle foglie e del vento, ma sempre in bilico sulla penombra, sia l’atmosfera predominante di Little Women. L’aspetto più interessante della biografia pubblicata da Jo March è proprio la rivelazione di questo confine sfuocato nei pensieri di Louisa, di questo conflitto nascosto e sempre sull’orlo della deflagrazione, dell’impossibilità di sfuggire al lato oscuro delle storie. 
Piccole donne è un romanzo per ragazzi perché alla prima lettura si mostra per ciò che ne incoraggiò la scrittura: la volontà di tracciare una netta barriera tra il bene e il male e di rappresentare lo sforzo epico delle giovani donne March, e di Jo in particolare, per passare dalla parte giusta del muro. Le sorelle ricevono per Natale una copia di The Progress of the Pilgrims di John Bunyan (Il viaggio del pellegrino) affinché questo indichi loro la strada verso il Bene; lavorano sodo per realizzarsi; due si sposano abbastanza presto, dopo aver affrontato i naturali ostacoli della vita amorosa, che le portano a migliorarsi interiormente. Solo Jo, alter ego letterario dell’autrice, fatica a rientrare negli schemi imposti da suo padre (e dal padre di Louisa) e dalla sua filosofia. Le sofferenze di Jo sono reali, tormentose: il senso di colpa, da cui a tratti lei sembra lasciarsi voluttuosamente travolgere, ispira tante – troppe – delle sue decisioni, e le delusioni che la sua autrice dissemina lungo il suo cammino sono amare, astiose, per niente educative e difficili da rimarginare. Tanta inquietudine, questo spesso velo di insoddisfazione, non sono più il tema di un romanzo per ragazzi, ma il soggetto di un’analisi di grande forza emotiva che la biografia di Sexton ci aiuta ad approfondire e a comprendere. 
La seconda parte di Little Women (quella che in italiano è stata chiamata Piccole donne crescono) è quella che maggiormente ci lascia intuire tale contrasto. Le ragazze sono più grandi: Meg è sposata, Amy supera i confini della casa paterna, con tutte le sue voci e le loro istruzioni di vita, e se ne va in Europa a costruirsi un futuro; solo Jo sembra sempre sul punto di realizzarsi, ma non ci riesce mai. La sua scrittura non è quella che dovrebbe essere, il raggio del suo allontanamento da casa arriva solo fino a New York e la sua parabola si chiude nella celebrazione della morale predicata dai suoi genitori, in una vecchia casa piena di memorie, con un marito che replica la figura patriarcale, un ruolo materno moltiplicato all’infinito, e la definitiva rinuncia all’arte. Ho trovato davvero rimarchevole la disamina delle ombre di Alcott nella nuova pubblicazione Jo March: i grandi racconti, in fondo, si evolvono dall’evoluzione di un conflitto, e tutta la straordinaria luce delle sorelle March non poteva che avere come controparte la storia di una scrittrice dai grandi dolori, come fu Louisa.