28 giugno 2018

Omicidio a Road Hill House

Negli ultimi tre giorni mi sono dedicata alla lettura di Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale (Einaudi), che aspettavo di leggere da tantissimo tempo, e l’attesa non è stata affatto delusa. L’opera, come suggerisce il titolo (in originale, The Suspicions of Mr Whicher or The Murder at Road Hill House), è il resoconto di un omicidio avvenuto in una dimora di campagna, ma ciò che lo distingue dalla classica narrazione “gialla” di marca inglese è che l’omicidio in questione è avvenuto per davvero.
L’opera di Summerscale (laureata a Oxford con lode e vincitrice di numerosi premi letterari), infatti, non è un romanzo, ma una sorta di libro-inchiesta che ripercorre le annose vicissitudini relative alle indagini sulla morte di un bambino, figlio di una famiglia borghese dell’Inghilterra dell’ovest. Ciò che si rivela particolarmente interessante è che nella sua trattazione degli eventi, il saggio non si limita a descrivere i fatti accaduti, ma offre uno studio ragionato sulla cultura e sulla società dell’epoca in cui essi si sono svolti. 
L’omicidio del piccolo Saville Kent si verificò in una fredda notte d’estate del 1860 e tutto ciò che avvenne a seguito di tale delitto viene studiato nel libro come una manifestazione della stessa natura sociologica dell’età vittoriana. L’autrice esplora la nascita del corpo dei detective della polizia, rappresentato da figure che hanno fatto la storia dell’investigazione, come Charles Field (ammiratissimo da Dickens) e lo stesso Whicher, e ne esamina sia le procedure, sia la reputazione presso l’opinione pubblica (non a caso il sottotitolo scelto da Einaudi per questo saggio è Invenzione e rovina di un detective). A noi lettori viene poi illustrato, in chiave ottocentesca, un fenomeno attualissimo, che sempre ci lascia sconcertati a seguito del compiersi di una tragedia delittuosa: il fenomeno, cioè, del fanatismo, dell’ossessione del pubblico per la vicenda, che spesso sfocia nella morbosa bramosia di rimestare nei dettagli della vita privata altrui e addirittura nel “turismo da delitto”, che induce decine di persone a voler visitare il teatro del fatto. Sono espressioni di febbrile e collettiva avidità di dettagli le cui cause e conseguenze ci spaventano ancora oggi guardando il telegiornale, ma da cui non era esente nemmeno la società vittoriana, che iniziava allora a essere abituata all’eccesso di informazioni in virtù della moltiplicazione delle pubblicazioni giornalistiche. 
È di grande interesse, inoltre, la trattazione dell’ideale domestico dell’epoca, ossia la casa concepita come «santuario inviolabile», luogo impenetrabile della privacy, rifugio dalla velocità del progresso e dalla sempre più concreta minaccia di mescolanza delle classi, e che nonostante tutto non aveva mezzi per difendersi dal rischio della violenza interna, di dinamiche familiari corrotte, di psicologie labili (anche nelle figure più tradizionalmente innocue, come le giovani donne e i bambini) e in definitiva della follia dei suoi abitanti. 
Non mancano infine i riferimenti alla letteratura coeva, che proprio in quegli anni – e di nuovo grazie al boom dell’editoria (libri e riviste letterarie) – si lanciava nel sensazionalismo, per soddisfare la fame di “giallo” dei lettori: Summerscale evoca lo stesso Dickens (con il suo enigmatico, perché incompiuto, Il mistero di Edwin Drood), Henry James (Il giro di vite), Wilkie Collins (La pietra di luna), Mary Elizabeth Braddon (Il segreto di Lady Audley) e vi ricerca, con successo, somiglianze inquietanti con l’omicidio che è al centro della sua ricerca, dimostrando così come l’intera cultura del tempo ne sia stata profondamente influenzata. 

Per un excursus sulla “letteratura del delitto” di ambientazione britannica, vi invito a leggere due post che sono il resoconto di una serata in libreria di qualche tempo fa, intitolata “Omicidi all’inglese”, durante la quale ho proposto una presentazione dell’argomento: 



22 giugno 2018

Letture di una "prof", prima delle vacanze

Cari lettori, in queste ultime settimane sono state tante le idee libresche che mi sono passate per la testa, ma la concentrazione e la tranquillità giuste per scriverle mi sono mancate, purtroppo. Maggio, per chi lavora a scuola, è un mese lungo e fitto di incombenze, e benché ormai le lezioni siano finite da due settimane, le ultime riunioni, gli scrutini e gli Esami di Stato ora in corso non mi hanno lasciato troppo tempo per occuparmi del mio sempre amato blog. Ma quali sono stati, in questi due mesi, i miei pensieri legati ai libri (lasciando perdere i libri di testo in adozione per il prossimo anno…)? Innanzitutto ho stilato delle liste di letture da assegnare alle mie classi per l’estate: a parte per un gruppetto ristretto di studenti, che hanno necessità di ripassare la grammatica inglese, ho voluto che i “compiti delle vacanze” fossero romanzi, saggi o racconti, possibilmente da amare e ricordare. Spero di aver proposto delle opzioni che piacciano e che avvicinino i ragazzi al «paradiso senza fine» (come direbbe Virginia Woolf) dei libri. 
Personalmente in questo periodo ho letto librini “piuma”, superleggeri, che mi facessero compagnia per una mezz’oretta prima di addormentarmi – qualche giallo di poca sostanza e persino una manciata di quei romanzetti che vendono migliaia di copie, generalmente ambientati in una botteguccia di Parigi o cose così. Niente di cui valga la pena scrivere qui, evidentemente! Tra le letture più serie, invece, rientrano The Aspern Papers e la collezione di lettere di Henry James, Letters from the Palazzo Barbaro (edizioni Pushkin, a cura di Rosella Mamoli Zorzi, con una prefazione del biografo dello scrittore, Leon Edel), scritte nel corso dei soggiorni veneziani. In una di queste lettere si fa riferimento all’aneddoto che ispirò a James proprio la composizione del Carteggio Aspern. Continua poi la mia lettura di Virginia Woolf, mia zia di Quentin Bell (La Tartaruga edizioni). Infine, la più recente lettura in corso, iniziata ieri sera, è Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale (Einaudi), che a giudicare dalle prime pagine promette davvero bene! Ah, dimenticavo: ho lavorato alle ultime bozze di una nuova traduzione di Elizabeth Gaskell, che dovrebbe uscire tra poco. Spero di potervi scrivere presto tutti gli aggiornamenti del caso… 
E poi, come spesso accade quando ho voglia di bella scrittura, ma non troppo difficile, sono ritornata a Kate Morton – che, come sa chi frequenta Ipsa Legit, è una delle mie scrittrici preferite: in attesa del suo prossimo romanzo, intitolato The Clockmaker’s Daughter, che uscirà a settembre, ho scelto di rientrare nelle suggestive atmosfere di The Distant Hours e nelle stanze “parlanti” di Milderhust Castle. 
Come recita lo stesso incipit del libro, «It all started with a letter», questa storia comincia a partire da una lettera consegnata con anni di ritardo, che innesca una ricerca a ritroso nel tempo da parte dell’io narrante, alla scoperta dei segreti che hanno coinvolto sua madre e un terzetto di sorelle colpite dalla tragedia della seconda guerra mondiale. Il grande talento descrittivo di Kate Morton, bravissima nell’esplorare i meccanismi della memoria e nel rappresentare ed evocare i luoghi (sarà forse questa la ragione per cui mi piace così tanto?), si esprime in passi come questi: «I can still see the glittering morning sky on my lids: the early summer sun simmering round beneath a clear blue film. It stands out in my memory, I suppose, because by the time I next saw Milderhust, the seasons had swung and the gardens, the woods, the fields, were cloaked in the metallic tones of autumn». «Have you ever wondered what the stretch of time smells like? […] Mould and ammonia, a pinch of lavender and a fair whack of dust, the mass disintegration of very old sheets of paper. And there’s something else, too, something underlying it all, […]. It’s the past. Thoughts and dreams, hopes and hurts, all brewed together, fermenting slowly in the fusty air, unable ever to dissipate completely». «The room settled around their absence; the stones began to whisper. The loose shutter fell off its hinge, but nobody saw its slip». Che modo magnifico di descrivere la vita reale dei luoghi, di come essi riescano a sopravvivere anche oltre coloro che li hanno abitati, e di come sappiano restituire al visitatore di un tempo seguente tutta la potenza delle passioni di chi lo ha preceduto… 
Per concludere questo post, suggerisco un altro paio di miei vecchi scritti su Kate Morton, uno riguardo al mio incontro con lei a Francoforte (https://ipsalegit.blogspot.com/2015/10/meeting-kate-morton-at-frankfurt.html) e l’altro su The Secret Keeper, il suo quarto libro (https://ipsalegit.blogspot.com/2012/11/una-splendida-lettura.html
Insomma, vi auguro una buona estate, lettori!