27 marzo 2015

Il matrimonio di Manchester

Il racconto breve è forse la più difficile tra le forme della narrativa. In un numero limitato di righe l’autore deve presentare la situazione e i personaggi, innescare il motivo del turbamento dello status di partenza, attivare l’evoluzione della vicenda (generalmente con l’inserimento di nuovi personaggi) e arrivare infine a una sintesi e a una conclusione. Elizabeth Gaskell è stata un’autrice che nel romanzo ha espresso il massimo delle sue doti, ma è stata anche devota alle short stories, producendone più di cinquanta nel corso della sua carriera. Uno di questi racconti, “The Manchester Marriage”, fu scritto per essere incluso nella raccolta, decisa da Charles Dickens, A House to Let, pubblicata nel numero di Natale 1858 del periodico da lui diretto Household Words. L’opera, i cui autori sono Dickens, Gaskell, Wilkie Collins e Adelaide Anne Procter, è stata tradotta interamente grazie alla casa editrice Jo March, che nel 2013 ha offerto al pubblico italiano La casa sfitta (trad. di C. Caporicci, V. Mastroianni e L. Ricci). 
“Il matrimonio di Manchester” è una storia sviluppata su piani temporali intercalati, che fonde tra loro atmosfere completamente opposte, facendoci assaggiare – come solo, secondo me, Gaskell e Dickens, hanno saputo fare – ironia e spirito tragico nello stesso boccone. È un racconto che si può definire fortemente gaskelliano, sia, appunto, per il suo tono attraente, rassicurante e inquietante allo stesso tempo, sia per i suoi particolari narrativi, che inducono a ritenerlo una sorta di prova di costruzione di quella che sarà la trama di Gli innamorati di Sylvia. Il tema dominante è infatti quello della scomparsa di un uomo (argomento quasi ossessivo per Gaskell – il cui fratello fu dato per disperso in mare – che scrisse non a caso una raccolta di storie intitolata Disappearances), ma anche alcuni dettagli tradiscono una grande somiglianza con il romanzo: la menzione di un dialetto del Nord, il carattere chiuso e poco espansivo della protagonista femminile, il matrimonio contratto da parte di lei per ragioni di sicurezza economica, la paura di una maledizione lanciata sulla famiglia e infine il passo «Ora che [il marito] se ne era andato per sempre, Alice provò all’inizio uno struggente, anelante amore per il cugino gentile, l’affezionato protettore che non avrebbe potuto vedere mai più – un intenso desiderio di mostrargli la sua bambina», che ci ricorda inequivocabilmente le ultime battute di Gli innamorati di Sylvia. La figura di Norah, poi, è l’ennesimo esempio della schiera di domestici affezionatissimi che Gaskell seppe creare con maestria narrativa e lucidità psicologica. Nella devozione totale dimostrata nei confronti della sua padrona, Norah ci ricorda la Dixon di Nord e Sud, la Betty di Mogli e figlie, la sua straordinaria omonima in Mia cugina Phillis e soprattutto il Kester di Gli innamorati di Sylvia: personaggi verso i quali il lettore non può che sentirsi attratto, per un senso di tenerezza e di ammirazione per la loro lealtà. Forse per qualche sfumatura del loro carattere la scrittrice si ispirò alla «nostra cara Hearn», la fedele governante che prestò servizio nella famiglia Gaskell per più di cinquant’anni.

23 marzo 2015

Shakespeare and Company

Foto di Mara Barbuni 2015
Sono tornata da un’incantevole settimana a Parigi, trascorsa all’insegna dell’arte e della letteratura. Ho visitato tutti i musei in cui i miei piedi mi hanno permesso di entrare (quattro in un giorno…) e ho rintracciato, in lungo e in largo per la città, i portoni, le finestre e le vetrine dei caffè attraverso i quali attimi di storia hanno potuto intravvedere il passaggio di grandi scrittori. Dovrò raccontare da qualche parte queste mie esaltanti ricerche: potrei scrivere una guida letteraria di Parigi, chissà…. 
Una delle tappe più appassionanti di questo lungo cammino è stata la visita alla libreria Shakespeare & Company. Situata nel cuore di Parigi, sulla riva della Senna di fronte alla cattedrale di Notre Dame, la libreria aprì nel 1951 e da allora è stata un luogo d’incontro per autori e lettori di lingua inglese – una vera e propria istituzione letteraria sulla Rive Gauche. Il suo nome originale era Le Mistral, ma il proprietario, l’americano George Whitman, lo cambiò in Shakespeare and Company nell’aprile del 1964 in onore della celeberrima e ammirata libraia Sylvia Beach, che dal 1919 al 1941 aveva gestito la prima Shakespeare and Company in Rue de l’Odéon. 
La libreria di Sylvia Beach, citata in Festa mobile di Hemingway, era stata un punto di ritrovo per autori francesi come André Gide e Paul Valéry e per la colonia di espatriati angloamericani di cui facevano parte, oltre allo stesso Hemingway, James Joyce, Gertrude Stein, Francis Scott Fitzgerald, T.S. Eliot, Ezra Pound. Agli autori squattrinati Sylvia prestava i libri, e spesso si offriva di pubblicare i loro lavori – fu questo il destino dell’Ulisse di Joyce, pubblicato da Sylvia Blythe nel 1922. 
Fonte: http://shakespeareandcompany.com/
Un giorno di dicembre del 1941, agli inizi dell’occupazione, un ufficiale tedesco entrò in libreria e pretese una copia di Finnegans Wake. Sylvia si rifiutò di vendergliela, e il soldato le comunicò che nel pomeriggio sarebbe tornato per confiscare tutti i libri e chiudere l’esercizio. Non appena se ne fu andato, Sylvia trasferì tutti i tesori, al sicuro, in un appartamento al piano di sopra; la libreria non riaprì più, e la donna trascorse sei mesi nel campo di internamento di Vittel. Le sue memorie, dal titolo Shakespeare and Company, uscirono nel 1959. Sylvia Blythe morì a Parigi nel 1962. 
La libreria di George Whitman (che si visita oggi, al numero 37 di Rue de la Bûcherie) ha accolto a sua volta scrittori, artisti e intellettuali, che potevano anche soggiornare tra gli scaffali dei libri, in una sorta di “comune” che era anche, come sosteneva Whitman, una «utopia socialista mascherata da negozio di libri». Agli ospiti della Shakespeare and Company si chiedeva di leggere un libro al giorno, di aiutare qualche ora in negozio e di scrivere una brevissima autobiografia: questi lavori (migliaia di pagine) sono stati raccolti in un enorme archivio di storie di viaggio, di letteratura e di sogni. Fra il 2001 e il 2006 la figlia di George, Sylvia Whitman, iniziò a dare una mano al padre fino a prendere in mano definitivamente le redini della libreria: da allora Sylvia ha inaugurato varie attività, come il festival letterario della Shakespeare & Co. (cominciato nel 2003) e il Paris Literary Prize (un concorso letterario per novelle aperto ad autori inediti). Di recente, la libreria è apparsa nei film Before Sunset di Richard Linklater e Midnight in Paris di Woody Allen. Tantissimi famosi autori continuano a fare la storia della Shakespeare and Company: tra loro, Zadie Smith, Jennifer Egan, Edward St. Aubyn…. 
Io ci sono entrata lunedì scorso, in una giornata piena di sole, alla fine di una bella camminata. Ho visto spazi angusti, libri impilati fino al soffitto, un disordine che significava creatività. Le seggiole invecchiate, i divani che sono stati i letti degli scrittori aspiranti o emergenti, le macchine da scrivere Underwood impolverate collocate tra i volumi, sugli scaffali sbilenchi che circondano un pianoforte scordato; e poi la biblioteca alla memoria di Sylvia Blythe, la luce discreta, la scala stretta, le fotografie in bianco e nero, e lo spazio di fuori, con le bancarelle coperte… istantanea di un mondo estraneo alla topografia del presente, dove si risponde solamente alle leggi della letteratura.


12 marzo 2015

Un'eredità di avorio e ambra

Sto leggendo un libro straordinario, che inseguivo da anni e a cui mi sono, finalmente, dedicata, in occasione di questa “serie parigina”. È Un’eredità di avorio e ambra di Edmund de Waal (Bollati Boringhieri, trad. it. di C. Prosperi), una storia seducente che insegue il destino di 264 statuette giapponesi (netsuke). 
Lo scrittore, ceramista di fama, racconta di aver ereditato da uno zio questo tesoro di minuscole figurine ricavate dall’avorio e dal legno e di aver deciso di ripercorrere i loro passi nel tempo e nello spazio a partire dal loro primo possessore, Charles Ephrussi: «Voglio entrare in ogni stanza in cui questo oggetto ha vissuto, percepire il volume dello spazio, scoprire quali quadri erano appesi alle pareti, qual era l’angolazione della luce che filtrava dalle finestre. […] Voglio sapere di quali vicende è stato testimone. […] La vetrinetta di Charles è una soglia». 
Charles Ephrussi
Charles Ephrussi, ricchissimo e celeberrimo collezionista e mecenate (ha ispirato la figura di Charles Swann della Ricerca del tempo perduto di Proust), amico di Degas, Manet, Renoir, Whistler e Baudry, è il protagonista della prima parte del libro. Dopo aver esplorato con delicatezza gli sfumati significati del possesso di un’opera d’arte (specie se piccola e raffinatissima come i netsuke), queste pagine danno letteralmente vita al mondo lontano di una Parigi festosa e innocente, in cui il denaro comprava eleganza, in cui le serate nelle dimore signorili erano impreziosite da velluti, sete, scrigni, lacche, ventagli, stampe, paraventi e porcellane, in cui neppure le origini ebraiche impedivano a Charles di essere amato, rispettato, cercato e onorato. L’incantesimo si spezza con l’affaire Dreyfus e l’esplosione definitiva del latente antisemitismo francese; allora Charles e i suoi netsuke devono trasferirsi a Vienna, dove comincia la seconda parte del racconto.
Ma è su Parigi che voglio concentrare l’attenzione di questo post. Oltre alle descrizioni topografiche della città («Le strade parigine trasmettono una sensazione di calma. Sono sobrie facciate in pietra, balconi dal ritmo geometrico e tigli piantati da poco») e dei lussi della casa di Charles in rue de Monceau, «ingombra delle carrozze degli aristocratici» e pervasa dal «profumo dei gigli», il libro offre bellissime ekphrasis, che hanno il potere di farci assaggiare i frutti dell’arte di quel periodo: di Gustave Caillebotte, Le Pont de l’Europe, di Monet, la Japonaise (espressione del giapponismo diffusissimo all’epoca), i Pommiers, Le Glaçons, La Bohémienne, Le Bains de la Grenouillère, La plage à Pourville, e poi, di Renoir, La déjeneur des canotiers, dove Charles Ephrussi è uno dei personaggi in secondo piano, vestito curiosamente in giacca e cilindro in una comitiva di gente rilassata, allegra, in camicia e cappello di paglia. 
Pierre A. Renoir, La déjeneur des canotiers
Questo libro, che non è un romanzo, ma una biografia visiva, è ispirato al principio – a me molto caro in letteratura – per cui gli oggetti «sembrano conservare il palpito della loro realizzazione. È questo palpito che mi incuriosisce e mi affascina. […] Se decido di prenderla in mano, questa tazzina bianca con la sua unica scalfittura vicino al manico entrerà a far parte della mia vita? Questo semplice oggetto […] potrebbe trovare posto nella mia vita di cose maneggiate, precipitare nel territorio della narrazione personale, di quell’intreccio sensuale e tortuoso fra cose e ricordi, diventare un oggetto preferito. […] Il modo in cui gli oggetti vengono tramandati è pura narrazione». Le sezioni successive a quella parigina perdono candore e il fascino della gioia, perché si ritrovano a cospetto dei mostri della Storia. Ma la sopravvivenza di quegli oggetti alle bestialità del Novecento sancisce la sacralità del ricordo e della bellezza, e sembra persino restituire un po’ di speranza.