29 ottobre 2014

Storici, discepoli e vampiri


Le ricorrenze sono piacevoli anche perché ci permettono di ripensare a libri letti in passato, ma così memorabili che meritano di essere tolti dallo scaffale e risfogliati una volta di più. Per l’imminente Halloween ho scelto di rileggere The Historian di Elizabeth Kostova (Il discepolo, tradotto da M.B. Piccioli, BUR 2006). Premesso che, a parte il capolavoro del Dracula di Bram Stoker, io mi tengo prudentemente alla larga da tutte le storie che mettono in scena vampiri, zombie e compagnia urlante, questo libro, che racconta una pericolosa quest sulle tracce del reale iniziatore della leggenda di Dracula (Vlad III, l’“impalatore”), è stata una vera e indimenticabile esperienza di lettura. 
In settecento pagine l’autrice narra in prima persona di viaggi nelle lande sperdute della Transilvania, di indagini in oscuri e polverosi anfratti di antiche biblioteche, di lettere vietate da un amore paterno senza confini e di strazianti legami familiari, mentre i ricordi, la fantasia e le paure evocano ad ogni pagina lo spettro di quel mostro che, vissuto nella Storia, non trova pace nella nostra cultura. L’aspetto più avvincente e insieme più inquietante del romanzo è la competenza dell’autrice in merito all’argomento trattato. Le servirono dieci anni per scrivere questo libro, che al di là della fiction è un saggio accademico, e ogni suo singolo paragrafo ce ne spiega la ragione. Da eccellente storica, Kostova ci trascina nella sua narrazione citando evidenze e fatti realmente accaduti, descrivendo luoghi che potremmo visitare anche domani mattina, attirando la nostra attenzione su conoscenze e tradizioni popolari che fanno parte dell’immaginario di tutti noi. I suoi passi si muovono dal passato remoto dell’esistenza di Vlad a quello più recente della vita di suo padre, fino al tempo presente, quando l’io narrante eredita proprio dal genitore la necessità della ricerca e a sua volta, tramite il suo racconto, la affida a chi legge. Ed è per tutte queste caratteristiche che il libro riesce veramente a “far paura”: mentre lo scenario cambia dalle deserte foreste medievali alle strade affollate di automobili del giorno d’oggi, capitolo dopo capitolo ci sentiamo sempre più coinvolti, sempre più, a nostra volta, “discepoli” di uno “storico” (per citare sia il titolo italiano che quello originale) che ha intrapreso un percorso di ricerca orrifico. 
Il senso di inquietudine che pervade l’intero romanzo inizia a serpeggiare sin dalla Nota al lettore che precede il racconto, e che contribuisce, perché stilata esattamente come quelle che introducono i saggi accademici (citazione di fonti e ringraziamenti), a farci sentire subito dentro una “storia vera”. Ne traduco due brani dalla versione inglese, sottolineando quante volte compaia proprio la parola storia, fondamentale per comprendere il valore di questo libro (che vendette più di novecentomila copie in due mesi): 

“Ciò che segue è una storia che non avrei mai voluto mettere su carta. Di recente, tuttavia, un evento traumatico mi ha indotta a guardarmi indietro e a ricordare gli episodi più inquietanti della mia vita e della vita di coloro che ho più amato. Questa è la storia di come, all’età di sedici anni, partii alla ricerca di mio padre e del suo passato, e di come egli andò alla ricerca del proprio amato mentore e della storia del suo mentore, e di come noi tutti ci ritrovammo lungo uno dei sentieri più oscuri della Storia. È la storia di chi è sopravvissuto alla ricerca e di chi non ce l’ha fatta, e perché. Essendo una storica, ho imparato infatti che non tutti coloro che s’inoltrano a ritroso nella Storia riescono a sopravvivere. È non è solo il procedere all’indietro che ci mette in pericolo; a volte è la Storia stessa che ci insegue, e ci raggiunge inesorabile con gli artigli delle sue ombre. […] La mia grande speranza nel rendere pubblica questa vicenda è di poter trovare almeno un lettore che la comprenda per ciò che realmente è: un grido dal cuore. A te, acuto lettore, lascio in eredità la mia storia”. 
E da parte mia, buona notte di Halloween….


22 ottobre 2014

Ho sposato il mondo

Tanto tempo fa, guardando un documentario dedicato a Maria Callas, ho sentito nominare per la prima volta Elsa Maxwell. Si parlava di questa giornalista come di una terribile pettegola, da parte della quale ci si aspettava un’aspra recensione a seguito di una performance discutibile della divina. Le immagini in bianco e nero mostravano anche un suo fugace passaggio nel foyer del teatro: una donna non più giovane, tozza, avvolta in una opulenta pelliccia. Dalla visione di quel documentario sono sempre stata incuriosita dal personaggio di Elsa Maxwell e quando ho scoperto che la casa editrice Elliot aveva pubblicato la sua autobiografia non ho potuto che desiderare di leggerla. 
Il libro si chiama Ho sposato il mondo, e racconta l’incredibile vicenda di un’americana piuttosto bruttina e non particolarmente benestante che, benedetta da una fortuna indescrivibile, si impone sulla scena sociale della prima metà del Novecento fino a diventare un simbolo del lusso sfrenato di cui godevano la nobiltà, la plutocrazia e il mondo dello spettacolo. Il racconto, in prima persona, ci fa entrare in un universo rutilante nel quale, come per magia, Elsa ha l’occasione di incontrare (e non solo, ma anche di discutere, e spesso di stringere forti amicizie con) la maggior parte degli uomini e delle donne più interessanti del suo tempo: solo per citarne alcuni, Winston Churchill, l’Aga Khan, Greta Garbo, Rita Hayworth, la Duchessa di Windsor (al secolo Wally Simpson, amante e poi moglie del Re che abdicò), Marlene Dietrich, Charlie Chaplin, Albert Einstein, Noel Coward, Christian Dior, Aristotele Onassis, e decine e decine di altre personalità che hanno scritto la storia del secolo lungo. Le scenografie sulle quali si stagliano i drammi borghesi recitati da tutti loro sono quelle — da sogno — delle grandi navi che attraversavano l’Atlantico per scaricare centinaia di americani annoiati sulle eleganti coste inglesi, i palazzi di Montecarlo, le spiagge fascinose del Lido di Venezia. 

Il resoconto delle avventure di Elsa è così denso di eventi e di grandi nomi che in certi momenti si inizia persino a dubitare della sua veridicità. Di certo la personalità dell’autrice era complessa e fitta di chiaroscuri, sebbene le sue memorie si sforzino di rappresentare solo la faccia luminosa della medaglia della sua vita. Se si cerca (e non è facile) di non restare abbagliati dai paraphernalia con cui l’io narrante cerca costantemente di confonderci — come le descrizioni delle sue memorabili feste, delle sue epiche cacce al tesoro, dei regali iperbolici che riceveva da stilisti e politicanti — si riesce a individuare una donna investita dalla solitudine. L’esistenza di Elsa Maxwell attraversò fasi di tremenda povertà, fu testimone di due guerre mondiali, e soprattutto non conobbe mai l’amore. Nella sua autobiografia ella scherza sulla propria bruttezza (è tuttora conosciuta con l’appellativo di “rospo”) e se ne rallegra, perché questa “qualità” le ha consentito di entrare nell’alta società senza compromettere i suoi rapporti con gli uomini e senza suscitare le gelosie delle loro mogli. Ma la mancanza perpetua di un compagno o di una compagna (è opinione molto diffusa che a un certo punto Elsa si innamorò perdutamente di Maria Callas, e che le sue insistenti avance furono respinte con aspra freddezza) non riesce a passare in secondo piano, e forse plasma anche il tono stesso di queste memorie, che tradiscono uno sforzo sovrumano di esposizione compulsiva di se stessa e dei propri successi. Se Maria Callas aveva la voce, Greta Garbo il fascino imperituro, Albert Einstein il genio e Winston Churchill il talento politico, Elsa Maxwell aveva i suoi “contatti”. E cercò di farne una ragione di vita.

14 ottobre 2014

Il giorno che morì Stalin

La casa editrice pisana ETS ha di recente inaugurato una nuova collana, tutta dedicata alla narrativa di lingua inglese: si chiama “Papyngo”, è diretta da Franco Marucci e promette la (ri)scoperta di piccole gemme di letteratura. 
L’esordio della collana è affidato a un racconto del premio Nobel Doris Lessing, Il giorno che morì Stalin, che a mio parere è uno fra i più interessanti della sua produzione “breve”. Al di là della indiscutibile pregevolezza della narrazione e della bellezza dell’oggetto-libro, che è decisamente molto curato – carattere chiaro, impaginazione pulita e carta particolarmente piacevole al tatto –, ciò che sicuramente incanterà il lettore sono l’alta qualità della traduzione (di Bianca Tarozzi) e la forza della sezione critica che precede il racconto, firmata da Cristina Gamberi. 
Non è facile, di questi tempi (in cui le pubblicazioni sono quasi compulsive, e l’editoria non ha abbastanza tempo a disposizione per dedicarsi alla cura del valore dei paratesti), trovare introduzioni così “dense” e interessanti. Queste pagine esplorano il mondo e l’opera di Doris Lessing, seppur brevemente, con grande attenzione, e sono indispensabili (altra cosa piuttosto rara) per il godimento del racconto che segue. I temi su cui si soffermano sono l’irrequietezza della generazione di Lessing (ereditata dal nostro tempo?), la disillusione insorta con la caduta delle grandi ideologie e il disvelamento dei loro crimini, il senso di solitudine, di incompiutezza e di non-appartenenza di una scrittrice che per anni ha cercato una “casa” (fisica ma anche ideale) diversa da quella che le era toccata in sorte. 
Il giorno che morì Stalin, brevissimo racconto in prima persona che manifesta queste e altre tematiche, dà voce soprattutto al sentimento di incertezza e di irrisolta incapacità di trovare un senso nelle cose che ha marcato fortemente il mondo postbellico, mettendo radici così profonde che ancora oggi sembriamo non essere in grado di liberarcene. 
Non voglio aggiungere altro, perché il libricino merita di essere letto in prima persona: come sempre accade, è attraverso i nostri ricordi e le nostre personali sensazioni ed esperienze che possiamo riconoscere pienamente la potenza della grande letteratura.