12 agosto 2019

Trieste e il declino degli Asburgo

Le mie ultime letture hanno avuto un tema in comune, un argomento che mi affascina sin da quando studiavo letteratura in tedesco all’università: la Mitteleuropa e il tramonto dell’ideale asburgico. In questo blog ho scritto qualche tempo fa del magnifico romanzo di Ernst Lothar La melodia di Viennache racconta di un’era in cui Vienna era il centro di un mondo di lusso e di splendori, dell’età di Francesco Giuseppe e del sogno di un’Austria multietnica e transnazionale, e che si chiude sulla caduta dell’utopia. 
I tre libri che mi hanno accompagnata in quest’ultima settimana sono stati invece: Trieste. Un’identità di frontiera di Claudio Magris e Angelo Ara (Einaudi), Trieste selvatica di Luigi Nacci (Laterza) e Hotel Sacher. L’ultima festa della vecchia Europa di Monika Czernin (EDT). I primi due si occupano di una città italiana che è stata avamposto dell’Impero asburgico fino a tempi relativamente recenti e che si è costruita, sviluppata, e che ha sofferto, sul pensiero della frontiera che mai abbandona chi ci è passato o vissuto e che spesso si è tramutato in scrittura. Come scrivono Magris e Ara, “la triestinità esiste nella letteratura, la sua unica vera patria, altrimenti non localizzabile in modo definito”. Il loro magnifico saggio racconta la città analizzando la rete sovranazionale di vicende storiche, letterarie, culturali e linguistiche, ed è un testo imperdibile per chi voglia tentare di afferrare una parte ancora troppo fluida della storia italiana; in particolare, l’amalgama triestino tra italiani e sloveni è un dato cruciale, che gli autori descrivono in tutta la sua complessità: “Alla fine del secolo è ormai ben chiaro il carattere, e insieme il destino e il dramma, della Trieste contemporanea, città reclamata da due popoli, lacerata tra contrastanti aspirazioni, inserita in uno stato con il quale ha solidi legami storici ed economici, ma dal quale è divisa da attriti nazionali e spirituali, dramma che sembra un concentrato delle nazioni europee”. Nel libro leggiamo di associazioni di lingua tedesca e slava, di irredentismo, di guerra, di Svevo, Saba, Slataper e Joyce, di guerre mondiali, di anime belle e di mercanti, di sole meridionale e di bora, di imperatori e di esuli, di trionfi e disperazione. 
Con un taglio e una forma diversa, ma occupandosi degli stessi temi, si esprime l’agile opera di Luigi Nacci, costruita in forma di apostrofe al lettore, al quale l’autore dà quasi affettuosamente del tu. Nacci, infatti, è una guida che accompagna i viandanti (il suo concetto di “viandanza” ricorre in molti dei suoi scritti) a scoprire il Carso – considerato, appunto, la Trieste selvatica. Il libro è davvero bello, perché è la voce di una lunga, e talvolta impervia, camminata attraverso i fatti storici, le diversità linguistiche, i confini politici, le frontiere spirituali e le realtà geografiche, botaniche e geologiche. Anche qui compaiono i grandi nomi di Trieste (Slataper, Svevo, Saba, Anita Pittoni), anche qui percorriamo la storia recente della città: l’intento però non è accademico/saggistico, bensì è quello di accompagnarci, in un’alternanza di dolcezza e ruvidezza, a prendere atto di una fase storica e geografica d’Italia quasi dimenticata. Tra i tanti passi che ho sottolineato riporto questo breve brano: “La bora è la voce potente del limite, un coro di confini che risuona all’unisono. […] nessun meteorologo ti dirà, caro lettore, che la bora soffia dalle boccacce storpie delle streghe che vivono in fondo alle grotte carsiche, soprattutto nessuno ti dirà che la bora è il dio che ci ricorda, con la sua turbolenza imprevedibile, che i confini esistono solo sulla carta. […] possiamo disegnare linee sulle mappe e mettere fili spinati nei boschi, ma non potremo mai dividere in due parti un vento”. 
Hotel Sacher è un altro libro rilevante, perché unisce il tono della narrazione (a volte davvero intimo e toccante) a fatti realmente accaduti. Concentrandosi sulla figura di Anna Sacher, la moglie del titolare degli omonimi hotel e ristorante dove fu inventata la celebre torta al cioccolato e confettura di albicocche, questa storia riporta in vita tutto il mondo della scintillante élite della Vienna fin-de-siècle: dalla corte degli Asburgo al milieu della psicanalisi, dall’epidemia di suicidi altolocati al serpeggiante antisemitismo, dall’imprenditoria alla visione degli artisti della rivoluzione, come Klimt, Schiele, Mahler, Schnitzler, von Hoffmanstahl, Zweig e la fotografa dell’alta società Dora Kallmus. L’autrice, Monika Czernin, è la pronipote di un amico di Anna Sacher, mentre il suo avo Ottokar fu l’ultimo ministro degli esteri della monarchia asburgica: anche per questo, forse, le pagine di questo libro scorrono via intense e vitali: “Gli uomini, cilindro in testa, con i pomi dorati dei bastoni da passeggio che splendono al sole; le signore con ampi cappelli […] guanti raffinati, vestiti fruscianti che fasciano le loro figure ben tornite. Passeggiavano dalla Kärntnerstrasse al Ring, passando davanti all’Opera e godendosi gli ippocastani e i platani che gettavano ombra sulla Ringstrasse, finché, arrivati alla Schwarzenbergplatz, si salutavano e andavano a pranzo”. Un mondo splendido e fragile, rappresentato al culmine della sua parabola, prima del precipizio nella “madre di tutte le catastrofi”.

3 agosto 2019

Durante le vacanze

Sono appena tornata da un’esplorazione della Normandia, scrigno di meraviglie, dove ho scoperto angoli di bellezza che non sospettavo. La regione è una galleria di distese di spighe (che il giorno dopo sono già pittoreschi covoni), di prati, di alberi, di colline, di abbazie e castelli, di villaggi senza tempo, di spiagge d’oro (Plage d’or, si chiamava Omaha Beach prima dello sbarco del D-Day) e della superficie scintillante delle acque della Manica, con l’incanto delle sue celebri maree e il formicolio di vele bianche nei giorni della festa. La Normandia sembra una porzione d’Inghilterra oltre il Canale: allo stesso modo bella, multiforme e ricca di vedute. Non stupisce che la storia inglese che conosciamo sia partita da qui, mille anni fa. 
Summer in Normandy. Foto: IpsaLegit2019
Il viaggio è iniziato – ed è stato un sogno – a Giverny, nel cuore dell’impressionismo, nel luogo d’elezione di Claude Monet. Ho potuto visitare le stanze straripanti di colore, lo studio dalle enormi finestre e le tele appese alle pareti, inondato di luce, e soprattutto camminare nei giardini intorno alla casa, che definire tavolozza è riduttivo. I sentieri si snodano tra cespugli opulenti di fiori, tra alberi pieni di respiro, sotto archi carichi di rose, lungo il ruscello attraversato dal ponte giapponese e oltre lo stagno delle ninfee, vicino al quale si ha la sensazione di essere entrati direttamente dentro le tele immortali conservate al Musée de l’Orangerie a Parigi. Nei giorni seguenti le meraviglie si sono susseguite senza interruzione, tra il senso di rêverie della passeggiata in avvicinamento a Mont Saint Michel, la corsa in auto lungo le coste della penisola di Cotentin, i paesini sulla spiaggia frequentati da Flaubert e da Proust: Cabourg, Deauville, Trouville sur Mer. 
In Normandia le sere d’estate sono lunghe (il tramonto non cala prima delle 22) e lungo è anche il tempo per la lettura. I libri che mi hanno fatto compagnia, accanto alla finestra del sottotetto di un’antica casa francese, affacciata sull’erba e sul profilo lontano della cittadina di Avranches, sono stati M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati (Bompiani) e L’amore è cieco (Neri Pozza), il più recente romanzo di William Boyd. 
Il romanzo di Scurati, Premio Strega 2019, è il primo volume di una prevista trilogia (monumentale) sulla vita di Mussolini: qui si tratta il periodo tra il 1919, anno di fondazione dei fasci di combattimento, al 1925, con le conseguenze del delitto Matteotti. La scrittura è affascinante: pur assecondando il gusto del racconto, le pagine riportano parole e testimonianze del tempo, senza ricorrere alla fantasia o all’opinione personale dell’autore. M. Il figlio del secolo illustra le origini del catastrofico fenomeno storico che ha massacrato l’Italia nel Novecento: un trauma che non è stato mai elaborato e che anzi oggi sembra riproporsi pauroso, nel nome di una violenza verbale, gestuale, sociale che ogni giorno spinge sulla soglia delle nostre case e delle nostre scuole, tentando di prendere il sopravvento. 
L’amore è cieco è invece un romanzo nel senso pieno del termine e, come in Ogni cuore umano, Boyd qui ci presenta l’epica maschile di un personaggio che combatte da solo contro il mondo e contro il destino, spostandosi nel raggio di uno spazio molto ampio. Il protagonista, lo scozzese Brodie Moncur, è un giovane accordatore di pianoforti che, inseguendo le sfide del suo lavoro, lascia Edimburgo alla volta di Parigi, e poi San Pietroburgo, Trieste, e le altre destinazioni più evocative dell’ultimo Ottocento. Il motore della sua vita è la musica, ma anche l’amore quasi ossessivo per una mediocre cantante russa che detterà il ritmo della sua sorte. Anche se non mi ha colpita tanto quanto Ogni cuore umano o Inquietudine, L’amore è cieco resta davvero un bel libro, capace di rapire l’attenzione per ore: ideale, quindi, per questa stagione.