7 novembre 2013

Jane Austen e la teoria letteraria: una riflessione


Foto di Mara Barbuni
Che le opere di Jane Austen possano essere annoverate fra i classici immortali della letteratura mondiale è ritenuto un dogma, è assodato, è fuori discussione. Quale sia la natura di un “classico letterario”, e quali definizioni potrebbero essere associate a questo termine potrebbe però essere oggetto di una lunga e articolata riflessione. È mio parere che uno dei parametri validi per giudicare l’immortalità e la grandezza di un’opera letteraria sia la possibilità di leggerla da una molteplicità di punti di vista, persino poco pertinenti l’uno con l’altro. Se, come sosteneva Calvino nella sua celeberrima osservazione, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha dire”, si può affermare che un’opera soggetta a quante più possibili interpretazioni critiche deve essere definita un classico.
Sfogliando una qualsiasi bibliografia austeniana, come può essere quella che noi di JASIT (Jane Austen Society of Italy) abbiamo inserito nella nostra pagina “Bibliografia italiana”, o nella nostra “Study Guide”, o la sistematica bibliografia redatta annualmente dalla Jane Austen Society of North America (consultabile fra i vari articoli della loro rivista online, “Persuasion”), è facile notare – anche semplicemente con un’occhiata ai titoli dei vari contributi – che almeno i sei romanzi canonici sono stati e sono tuttora oggetto di studi critici che derivano dalle più svariate scuole di pensiero. Non tutte le opere di narrativa sono così ricche di significato da poter godere di un simile trattamento.
In questo post voglio tentare un rapido excursus che tocchi le principali manifestazioni della teoria e della critica letteraria del Novecento per dimostrare che ciascuna di loro ha, ha avuto, o potrebbe avere, la possibilità di scavare nella scrittura di Jane Austen per trovarvi infiniti spunti di pensiero e di discussione. Poiché la teoria della letteratura è un mondo gigantesco, poliedrico, persino un po' labirintico, mi farò accompagnare in questa riflessione da un manuale molto snello e intelligente, The Blackwell Guide of Literary Theory a cura di Gregory Castle. E' un libro assai utile per chi abbia bisogno di immergersi nelle sacre acque della teoria letteraria prima di un esame importante o di uno scritto impegnativo. 


Se la seconda parte di questo libro è dedicata ai grandi nomi della storia della critica (Adorno, Barthes, Benjamin, Cixous, Derrida, Eagleton, Foucault, Irigaray, Iser, Kristeva, Lyotard, Said e tanti altri), la prima metà esplora i diversi focus del pensiero novecentesco. L'attenta cronologia che precede i diversi capitoli fa risalire la stessa idea di teoria letteraria (al di là delle prime espressioni romantiche e vittoriane) agli ultimi anni del diciannovesimo secolo, e concretamente nelle opere dei grandi scrittori modernisti come Virginia Woolf, Henry James, Joseph Conrad, T.S. Eliot, W.B. Yeats.
Partiamo con i cosiddetti Cultural Studies. Raymond Williams affermò l'allontanamento da una visione della cultura elitaria e idealistica verso un'idea più ampia, che riconosca il dinamismo e la complessità della società contemporanea. All'interno di questo ambito si ritrova un'enfasi sulla cultura di massa rappresentata dai giornali, dalla televisioni e oggi dai media digitali, e in generale un'attenzione particolare sul modo in cui i lettori recepiscono l'opera letteraria. Come non vedere che negli ultimi anni Jane Austen si è offerta a questo percorso interpretativo forse più di qualsiasi altra grande voce della letteratura? Pensiamo ai film, ai serial, ai fumetti, ai blog, ai videogame, alle celebrazioni, alla sconfinata oggettistica che gira intorno alla sua figura e ai suoi personaggi. Non si deve temere smentita se si afferma che molti fan di Austen non hanno probabilmente mai finito di leggere i suoi libri. Se poi vogliamo soffermarci su quel particolare aspetto dei Cultural Studies che è l'orbita degli studi postcoloniali, ci sono passi delle opere di Jane Austen che offrono spazio a questa argomentazione. Forse più degli altri, sono Emma e Mansfield Park gli oggetti di tale interesse (del secondo ha scritto profusamente Edward Said in Culture and Imperialism): ne ho parlato più dettagliatamente in un post di JASIT intitolato "Cittadini del mondo: visioni contemporanee dei personaggi di Jane Austen". 
Emma e Mansfield Park sono stati di recente oggetto anche di diversi articoli critici concentrati sull'uso del linguaggio, e di quel delicatissimo rapporto tra parola e silenzio che fa grande un'opera letteraria, perché permette ai suoi fruitori (i lettori) una sconfinata libertà di interpretazione. La teoria decostruzionista è probabilmente l'ispiratrice di questi interventi, perchè questo movimento si è dedicato al modo in cui il linguaggio ha costituito il significato attraverso il gioco delle differenze, degli "errori" e dei vuoti di significante... pensiamo ai giochi di parole così importanti per lo sviluppo delle vicende in Emma!
Sulle teorie femministe e i gender studies il discorso è ancora molto complesso (basti pensare al rigurgito di velenoso maschilismo apparso sui commenti online alla notizia che l'immagine di Jane Austen comparirà sulla banconota da 10£!). Di certo, però, l'opera di Austen è pervasa di, se non talvolta addirittura motivata da, riferimenti allo stato di dipendenza in cui versavano le donne della sua epoca. Il matrimonio, croce e delizia delle sue storie, è pensato, aspirato e vissuto in costante rapporto con il denaro, rivelandosi così nella sua natura di contratto di vendita del corpo femminile. Il quale, di conseguenza, non sembra appartenere veramente alle donne, ma non è altro che un prezioso e fragile specchietto per le allodole più ricche, da tenere quindi particolarmente da conto. Orgoglio e pregiudizio è illuminante da questo punto di vista.
Parlando di denaro e di gerarchia sociale non possiamo non pensare alla critica marxista: secondo questa linea di pensiero, l'analisi del contesto e delle strutture storico sociali è fondamentale per comprendere un testo letterario. E quali se non i romanzi di Jane Austen offrono la visione di un mondo in cui la quotidianità è regolata dal dominio di una classe sociale sull'altra e dal valore pratico ed economico delle cose e delle persone? Non serve ricordare che gli uomini e le donne di Austen sono più o meno tutti classificati numericamente - ovvero in base al numero di zeri della loro rendita o della loro dote, rispettivamente.
Chiudiamo con l'approccio psicologico ai sei romanzi canonici. Non è difficile citare come stimolo di una simile riflessione la delicata relazione tra genitori e figli. Forse a causa del complesso rapporto con la propria madre, Austen ha creato una miriade di personaggi che il destino ha reso orfani o i cui padri e le cui madri sono talmente insulsi da far pesare la loro assenza sulla crescita emotiva dei figli. La galleria di esempi è molto affollata: i signori Bennet, il padre di Anne Elliot, il padre di Emma, per certi versi la signora Dashwood, i genitori di Fanny Price e persino il padre e la madre di Mr. Darcy (lui stesso ritiene di essere stato reso così "orgoglioso" dal tipo di educazione ricevuta durante l'infanzia) risultano totalmente inadeguati al loro ruolo di educatori. Per i genitori assenti, come le tenere madri di Anne e di Emma, rimane vivo un senso di mancanza che non può che contribuire al progresso delle loro vicissitudini. Un esempio molto chiaro dell'importanza data a questa assenza è l'incipit della miniserie Emma (BBC, 2009), che rappresentando un originale antefatto al romanzo mostra le diverse sorti di tre bambini orfani di Hartfield: la stessa Emma, che però dopo la morte della madre ne trova una vicaria nei panni di Mrs. Weston; Frank Churchill, spedito da una zia arcigna a causa dell'incapacità di suo padre di prendersi cura di lui; e Jane Fairfax, che diventerà la più sofferente, seria e matura dei tre, perchè a sostituirsi ai genitori perduti non avrà a disposizione altro che la povera Miss Bates.