11 aprile 2017

È iniziata così

La scorsa settimana ho letto È iniziata così di Penelope Lively (Guanda 2011, trad. it. di Corrado Piazzetta), un’autrice che mi piace sempre tantissimo. Qui su Ipsa Legit ho già scritto di Un posto perfetto, Amori imprevisti di un rispettabile biografo e L’estate in cui tutto cambiò, mentre il romanzo che vi presento oggi, il cui titolo originale è How It All Began, è al momento l’ultima opera di narrativa della scrittrice britannica. 
Come già in altri suoi libri, il filo rosso che sostiene questa storia è la consapevolezza dei piani intersecanti del Tempo: livelli fluttuanti, che si incrociano con la realtà, assecondando il dominio del Caos. Un incidente banalissimo – l’anziana Charlotte viene derubata da un ragazzino per la strada –, che sarebbe potuto capitare in qualunque luogo e in qualunque momento, determina un cambiamento decisivo nella vita di sette persone, legata l’una all’altra da relazioni più o meno strette, più o meno serie. A partire dal superamento della soglia delle sliding doors aperte da questo episodio, apparentemente insignificante, accade che Rose, la figlia di Charlotte, sia costretta ad assentarsi dal lavoro per qualche giorno; il suo datore di lavoro, Lord Henry, deve quindi chiedere aiuto alla nipote Marion, che così si ritrova a osservare la realtà del rapporto con il suo amante, Jeremy, il cui matrimonio entra allora in crisi… – una sorta di incontrollabile reazione a catena, narrando la quale Penelope Lively dà prova, come al solito, del suo grande talento per la bella scrittura. 
Quando racconta di Marion e di Jeremy, l’autrice comunica (come già in Un posto perfetto) la sua attrazione per il gusto del vivere la casa e per la ricerca degli oggetti per arredarla, che non sono solo “cose”, bensì veri e propri gusci di storie da raccontare, involucri di tempo immortale. In Charlotte, insegnante di inglese, e Henry, storico dell’illuminismo, Lively studia le dinamiche della vecchiaia fisiologica, colpevole di alto tradimento a danno di menti ancora lucide, ancora sognanti, ancora piene di parole da dire e di ricordi da celebrare: «Charlotte sa di navigare in un enorme mare di parole, di linguaggio, di storie e di situazioni e informazioni, di conoscenza. In parte la può recuperare, in buona parte è quasi perduta ma rimane in qualche angolo, e ha avuto un’influenza su di lei e sul suo modo di pensare. Charlotte è il prodotto tanto di ciò che ha letto quanto del modo in cui ha vissuto; è come milioni di altre persone forgiate dai libri, per cui i libri sono un alimento essenziale, persone che potrebbero morire di fame se non li avessero».
Questo romanzo è densissimo del valore delle parole. Parla di lingua nativa, di libri di storia, di dizionari: racconta di un immigrato “economico”, Anton, che vuole imparare a leggere in inglese per tentare di trovare una vita migliore, per sentirsi integrato nel Paese che ha dovuto eleggere a sua nuova casa. La sua momentanea condizione di analfabeta è descritta con verità straziante: «La lingua gli lanciava i suoi dardi, tutto il giorno. Lo sfidava dalle fiancate degli autobus, in metropolitana, dai giornali. […] Quando ti trovi in un paese straniero, pensava, sei dietro uno steccato, o in una cella: attorno a te il mondo scorre, ma tu non ne fai davvero parte. Apri la bocca e sembri un bambino; sai di essere altro, ma non riesci a spiegarlo». 
Certa sensibilità, nel mondo così arrabbiato in cui stiamo, si trova veramente solo nei libri. E allora, leggiamo.