28 agosto 2015

Il vulcano che oscurò il mondo e colorò le arti

Il rinvenimento delle tracce della scienza nelle opere della letteratura è sempre stato per me un tema molto suggestivo. 
Per questo motivo ho trovato interessantissimo questo articolo, a firma di William J. Broad, comparso sul “New York Times” lo scorso 24 agosto. Il pezzo è la recensione di un libro (Tambora: The Eruption that Changed the World di Gillen D’Arcy Wood) che ricerca le conseguenze dell’eruzione vulcanica indonesiana del 1816 nelle più celebri forme artistiche del Romanticismo. 
Quella che segue è una traduzione parziale dell’articolo, che si può leggere in originale qui.

John Constable, Weymouth Bay
Londra, National Gallery
Nell’aprile del 1815, la più devastante esplosione vulcanica citata negli annali scosse il pianeta causando una catastrofe dalle dimensioni così estese che oggi, duecento anni più tardi, gli studiosi stanno ancora tentando di comprenderne le conseguenze. La loro opinione è che questa eruzione abbia contribuito al clima glaciale, alla crisi agricola e a pandemie globali – e persino alla nascita di celebri “mostri” letterari. Nelle lussureggianti isole delle Indie Orientali Olandesi – oggi Indonesia – l’eruzione del Monte Tambora uccise decine di migliaia di persone, che finirono bruciate vive o schiacciate da rocce scagliate in aria dall’esplosione, oppure morirono di fame dopo che le ceneri arsero i raccolti nei campi. Gli studiosi, poi, hanno scoperto che la gigante nube delle minuscole polveri dell’eruzione si propagò sul pianeta fino a fermare i raggi del sole e a causare tre anni di raffreddamento del clima globale. Nel giugno del 1816, una terribile tempesta di neve aggredì l’area settentrionale dello stato di New York; in luglio e in agosto delle crudeli gelate devastarono i raccolti nel New England e Londra fu battuta dalla grandine per tutta l’estate. Molte nazioni subirono ondate di carestia e di malattie, con la conseguenza di un pesante declino economico e di inquietudine sociale: in generale, i raccolti agricoli soffrirono in tutto il pianeta. 
“L’anno senza estate”, come fu definito il 1816 (chiamato anche dagli inglesi eighteen hundred and froze to death, cioè “milleottocento e freddo da morire”, e dai tedeschi “l’anno del mendicante”), diede luogo ai ritratti di tramonti dai colori violenti e di cieli in tempesta che ben conosciamo, e anche a due sottogeneri della narrativa gotica: la sua spaventosa progenie fu rappresentata da Frankestein da una parte e dai vampiri dall’altra – creature che da quel momento in avanti non hanno mai abbandonato la scena artistica e letteraria. 
La velatura globale causata dall’esplosione ebbe l’effetto di riflettere con forza la luce del sole: è da questo fenomeno che derivano le nuvole nere dei dipinti di Constable; ed è grazie alle particelle di pulviscolo sospese nell’atmosfera che J.M.W. Turner poté assistere agli spettacolari tramonti che lo hanno reso immortale. 
J.M.W. Turner, Chichester Canal
Londra, Tate Gallery
Durante l’estate di quel 1816, la Svizzera stava soffrendo acutamente a causa del maltempo e della distruzione dei raccolti, tanto che, come racconta la testimonianza di un prete dell’epoca: “È terribile vedere questi scheletri che camminano divorare con tanta avidità il cibo più repellente”. Fu proprio nel giugno di quell’anno che alcuni illustri turisti inglesi, decisi a fuggire dal clima tempestoso della patria, si rifugiarono in una villa ai margini del lago di Ginevra, flagellato a sua volta dai temporali: e radunandosi intorno al fuoco iniziarono a raccontarsi vicendevolmente delle storie del terrore. Della comitiva facevano parte Mary Shelley, allora diciottenne, Percy Shelley, il suo futuro marito, e Lord Byron. Il Frankenstein della giovane Mary, la storia del vampiro di John William Polidori (The Vampyre) e il poemetto apocalittico di Byron, Darkness, furono concepiti e scritti proprio in quelle orribili notti di tempesta, nel corso di un’estate in cui la natura cambiò la storia dell’umanità.