26 aprile 2019

Un aprile, tre libri

Nell’ultimo mese, con la preziosa complicità di lunghi viaggi in pullman e pazienti attese in aeroporto, ho letto tre libri molto belli, tutti di firma maschile (cosa piuttosto fuori dall’ordinario, per me): un romanzo, un saggio e una biografia scritta con il ritmo e la passione della narrativa.
Quest’ultima è Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati (Bompiani), un libro che ho finito molto opportunamente ieri, nel giorno della Liberazione. Con scrittura magistrale racconta la vita fisica e intellettuale di Leone Ginzburg, colui che disse “no” al fascismo e che contribuì a fondare la casa editrice Einaudi. La narrazione è molto forte, intrecciando i riferimenti dottissimi al lavoro di Ginzburg (studioso indefesso, curatore precisissimo e traduttore innamorato) alle marce forzate della storia d’Italia che piomba verso la caduta. Altri filoni biografici (e autobiografici) si innestano in questo ramo centrale, che tuttavia rimane il più bello e il più interessante e si rivela infine un vero inno alla resistenza della letteratura: “Poter abitare la terra di mezzo tra la radura dei vivi e la selva dei morti, la sfera visibile e quella invisibile, ecco cosa ci rende umani. Lo diventiamo grazie a testimonianze come quella affidata da Leone Ginzburg alla sua ultima lettera. Esseri capaci di raccontarsi l’un l’altro la propria storia, e a vicenda la storia degli altri. Dall’al di là a chi è ancora qua. Chi è andato e chi rimarrà”. 
Il secondo libro è una recente pubblicazione Feltrinelli, che interpreta uno dei motivi di scrittura che mi appassionano di più, cioè il rapporto degli scrittori con le loro case: La finestra di Leopardi di Mauro Novelli. Novelli, professore alla Statale di Milano, ci incanta in questo libro con il suo viaggio dal Nord al Sud dell’Italia, alla ricerca dei focolai di storia, di nostalgia e di vita che si condensano nei paesaggi e nei luoghi degli autori, nei loro oggetti e nelle loro abitudini. 
Dalle langhe di Fenoglio e Pavese alla casa densa di Manzoni, dal Vittoriale degli Italiani alla dimora collinare di Petrarca, dalle carceri tormentose degli scrittori prigionieri ai nidi di Giovanni Pascoli, dagli esili dei grandi poeti (Dante, Foscolo) alle stanze tutte per sé delle penne femminili, dalle vastità della Sicilia agli odori della Sardegna, fino alla carezza del paesaggio di Recanati. Scrive Novelli che “inseguendo l’ombra degli scrittori, incontriamo la nostra. Sulle loro pagine ci siamo riconosciuti, nelle loro stanze li riconosciamo. Qui […] è maturata una parte di noi”: mi emoziona leggere queste parole, perché riflettono esattamente ciò che ho sentito scrivendo i miei due libri sui luoghi di Elizabeth Gaskell (Elizabeth Gaskell e la casa vittoriana e Sui passi di Elizabeth Gaskell) e Le case di Jane Austen.
Infine, il romanzo che ha accompagnato questo ultimo mese è I coraggiosi saranno perdonati di Chris Cleave (Neri Pozza, trad. it. di L. Prandino), che racconta la seconda guerra mondiale dal punto di vista, triplice e poi duplice, di chi rimase a Londra, patendo la tragedia della distruzione e della disperazione, e di chi scelse di combattere – e in particolare si ritrovò protagonista e vittima dell’assedio dell’isola di Malta. Il libro è scritto (e tradotto) in una lingua molto bella, trasuda passione da ogni pagina e ci trascina nella commozione per il destino di Mary, di Tom e di Alistair e dei bambini, prima evacuati e poi rispediti indietro, che a Londra rischiano la vita sotto le bombe a causa delle loro malformazioni o del colore della pelle. 
È intenso il rapporto che la giovane di buona famiglia Mary, desiderosa a ogni costo di prestare servizio alla nazione in guerra, instaura con questi piccoli rifiutati, e con l’idea stessa di istruzione: quando entra nella scuola abbandonata in cui spera di recuperare quei bimbi alla vita, “le sembrava di avere cinque anni, e cinquecento. Ecco i resti di diecimila corsi di studio, ossa inabissate sul fondo. I fossili della nazione. Le si strinse il cuore, perché la guerra aveva reciso il filo sottile che legava ogni bambino ai suoi avi, con legami fatti di punto croce e di calligrafia”. Il romanzo abbonda di dettagli sensoriali e di simboli visivi, che rendono la lettura scorrevole come un film: il “profumo dolce di iuta dei sacchi di posta” che vuol dire l’amore lontano, “il cielo color indaco, chiassoso di stelle” che significa la piccolezza umana e la solitudine, “l’odore di cera del corrimano”, segno di casa, e il barattolo di marmellata di more di Tom, che percorre insieme a noi tutta la storia, rappresentando l’amicizia, il ricordo e la speranza. Nonostante la portata stupefacente della tragedia, infatti, in questo romanzo resta il bagliore sempre vivo del senso della sopravvivenza: “La vita ci metteva più tempo a riassestarsi che a esplodere, ma questo non significava che non potesse essere bellissima, purché ci si ricordasse di andare a fare passeggiate in campagna e ascoltare musica alla radio”.