19 giugno 2016

Raggi di luna

Stamattina ho chiuso l’ultima pagina di Raggi di luna di Edith Wharton (Bollati Boringhieri 2015, trad. it. di M. Biondi). The Glimpses of the Moon (titolo tratto da un verso dell’Amleto) uscì nell’agosto del 1922, un anno dopo che l’autrice si era guadagnata il Premio Pulitzer per il suo capolavoro, L’età dell’innocenza; è un libro ancora una volta basato sui temi dell’amore, del matrimonio e delle difficoltà di proteggere queste due fragili e preziose esperienze della vita umana da una società dominata dalla falsità, dalle convenienze e dalla necessità costante di accumulare e di spendere denaro («sapeva quanto è fragile il filo a cui sta appeso chi non ha un centesimo»). 
Nella sua autobiografia, A Backward Glance (pubblicata in italiano con il titolo Uno sguardo indietro), Wharton parla di Raggi di luna in riferimento al contesto del primo dopoguerra. Di questo periodo scrive: «La morte e il lutto erano come tenebre sulle case dei miei amici e io soffrivo con loro, e fondevo il mio cordoglio privato con il dolore di tutti», nel patire «il crescente senso di spreco e di perdita dovuto agli irreparabili anni della guerra». Per questo Raggi di luna offre, secondo lei, «una via di fuga dai recenti, spaventosi anni». 
In effetti, questo romanzo, pur ricordando per molti versi – e soprattutto nella sua protagonista, Susy – il tragico La casa della gioia, appare più “leggero” di altre opere di Edith Wharton, essendo molto concentrato sull’intreccio amoroso piuttosto che sulla disamina, tipica di altri suoi libri, della complessa e stritolante meccanica sociale. Al momento della sua pubblicazione ebbe un grande successo di pubblico, ma la critica iniziò a intravvedere una certa lontananza della scrittura dell’autrice da quelle che stavano diventando le istanze rivoluzionarie della letteratura contemporanea, rappresentate da lavori come Terra desolata di T.S. Eliot o Ulisse di Joyce; è innegabile, tuttavia, che nella rappresentazione precisa della vita mondana dei personaggi di Raggi di luna, sembrano comparire motivi che si ritrovano anche in Il grande Gatsby (1923).

La grande bellezza di questo romanzo, come spesso avviene in Wharton, sta nella sua rievocazione del “sense of place”. I due protagonisti, Susy e Nick, da tipici espatriati americani, si spostano su e giù per l’Europa andando incontro a “raggi di luna” destinati a spiovere sempre su splendidi paesaggi, la maggior parte italiani. La loro storia coniugale inizia in una villa sul Lago di Como, le cui piccole onde si fanno «più ampie, riducendosi infine a una serica levigatezza, mentre alta sopra le montagne, in un cielo spolverato di stelle sempre più evanescenti, la luna stava passando dall’oro al bianco». Lasciata Como, i due si spostano, sempre squattrinati e sempre ospiti dell’interessata generosità altrui, nella cornice stregata di Venezia, dove il sole «entrava a fiotti attraverso le tende di vecchio broccato, e la sua rifrazione dalle increspature del canale tracciava un reticolo di scaglie dorate sul soffitto a volta» e, nel crepuscolo, la prua delle gondole «scivolava sopra il riflesso capovolto dei palazzi e nel profumo di giardini nascosti». Non può mancare, infine, una fotografia di Parigi, la tanto amata Parigi di Edith Wharton, con «il reticolo della città vecchia, le grandi volte grigie di St. Eustache, le vie gremite del Marais».