1 dicembre 2012

La coppa d'oro

Il regista James Ivory è notoriamente innamorato della grande letteratura ambientata nel primo Novecento. Tra le sue opere si contano le trasposizioni di Camera con vista e Casa Howard di E.M. Forster, Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro, e dei romanzi di Henry James Gli Europei, Le Bostoniane e La coppa d'oro. Quest'ultimo film mi ha fatto compagnia nel piovoso pomeriggio che è appena trascorso, e mi ha ricordato di quando ho letto il capolavoro "maturo" della narrativa jamesiana. 
The Golden Bowl (1904) è un trionfo nell'analisi psicologica tipica della scrittura dell'eccelso autore (anglo)americano, una disamina attenta, quasi puntigliosa, delle sottili dinamiche di coppia che sorreggono non uno, ma ben due matrimoni. La storia si apre  quando il principe impoverito italiano Amerigo si trova a Londra per sposare Maggie Verver, unica figlia di un vedovo americano, ricchissimo collezionista d'arte. Lì incontra Charlotte, in passato sua amante e compagna di scuola di Maggie; i due decidono di non rivelare alla futura sposa della loro precedente conoscenza e le nozze si celebrano sotto la flebile ombra di un primo segreto. L'evoluzione della vicenda porta Charlotte a sposare il padre di Maggie, Adam, cosicché il romanzo si struttura come una piéce alto borghese incentrata sui meccanismi ipocriti e pseudo-moralisti di una ambigua famiglia allargata. Charlotte e Amerigo riprendono la loro storia d'amore, ora macchiata dall'adulterio, mentre il rapporto tra Maggie e suo padre sembra non riuscire mai a liberarsi dal cappio dell'infantilismo: fino a un certo punto della storia sembra che la ragazza non sia in grado di sfuggire al proprio ruolo di figlia (ricordando così in un certo senso la disgraziata Catherine del jamesiano Washington Square), aprendo così il proprio personaggio a innumerevoli interpretazioni psicologiche. 
Kate Beckinsale nel ruolo di Maggie Verver
Com'è tipico di James, la narrazione è densa di queste analisi interiori, ed è l'esplorazione della coscienza dei personaggi a dominare. Anche in questo romanzo è preponderante il tema del contrasto tra il pericoloso cinismo degli europei (Amerigo) e l'innocenza degli americani (Maggie), anche se il seguito della storia si dedica alla rappresentazione dello sviluppo del personaggio di Maggie da creatura ingenua e inconsapevole a donna forte e tenace, disposta a tutto - anche a sacrificare la propria innata bontà e onestà - per tenersi stretto il marito. Questo aspetto l'ha resa ai miei occhi molto simile alla May Welland Archer di Edith Wharton (L'età dell'innocenza; cito questo romanzo qui). Premesso che L’età dell’innocenza è uno dei miei libri preferiti, di quelli che ho letto e riletto senza stancarmene mai, e anzi cogliendone ogni volta una diversa bellezza, c’è da dire che il film che ne ha tratto Martin Scorsese (1993) è un capolavoro. Subito affascinante e significativa è la sequenza di immagini che accompagnano i titoli di testa – una lunga serie di fiori opulenti mostrati nell’atto della loro fioritura, e quindi nel culmine della bellezza già associata al loro inevitabile declino: entro i primi minuti del film si comincia già a percepire che l’“innocenza” presentata dal titolo non è che ostentazione, un fulgido bianco sepolcro che nasconde la natura ombrosa, dubbiosa, tormentata di una società trionfante e lussuosa, ma sull’orlo della fine. Il lusso è un personaggio fondamentale e indelebile di questa storia – così come di The Golden Bowl – perché è il simbolo di quella gabbia dorata nella quale uomini e donne dalla sensibilità un po’ troppo pronunciata si rinchiudevano, inconsapevoli della claustrofobica sorte che li attendeva. Uomini e donne come Newland Archer (che sogna di sfuggire al matrimonio, fitto di imposizioni e convenzioni, contratto con May) e il principe Amerigo (che rimpiange la sua Roma lenta, solare e sensuale); come la contessa Olenska e Isabel Archer (protagonista di Ritratto di signora di Henry James), che si sposano in ricchezza votandosi a un destino di pena, rimpianti, umiliazioni, solitudine e silenzio.
Daniel Day Lewis e Winona Ryder
nei panni di Newland
e May Archer
E poi ci sono le donne come May e come Maggie, che ritratte come angeli (nei film spesso vestite di chiaro, al contrario delle loro antagoniste), sempre quiete e sorridenti, nascondono un’atroce volontà di dominio e di conservazione delle apparenze, del tutto incuranti del dolore che i loro intenti infliggono a chi sta loro vicino. La scena culminante del film di Scorsese è quando May, ormai a conoscenza della storia d’amore tra il marito e la contessa Olenska, affronta Newland nella semioscurità soffocante dello studio di lui. Egli, ormai prostrato dalle bugie e dalla maschera del coniuge perfetto, le comunica che vorrebbe intraprendere un viaggio da solo – evidentemente per fuggire, per trovare respiro. May allora celebra il proprio trionfo annunciandogli di essere incinta e di non poter dunque certo rinunciare a lui; e quando si allontana dalla stanza – sempre quieta, sempre sorridente – la telecamera stringe sulla coda del suo abito da sera, che striscia sul pavimento come un enorme, crudele e ormai sazio serpente.
L’inganno nascosto dietro le apparenze è l’oggetto principe delle esplorazioni narrative di Henry James e della sua migliore “allieva”, Edith Wharton: ed è ciò che rende le loro opere così sublimi, e così impareggiabili nella letteratura del Novecento.