13 gennaio 2018

La melodia di Vienna

Complici le giornate di riposo della settimana della feste, ho finito La melodia di Vienna, il romanzo più solenne dello scrittore austriaco Ernst Lothar (1890-1974). Il libro, che ho letto nell’edizione e/o (2017) con traduzione di Marina Bistolfi, è un magnifico esempio di racconto di una saga familiare, che si snoda attraverso i diversi piani della grande casa al Numero 10 di Seilerstätte, a Vienna. I due personaggi principali, Henriette e Hans, sono madre e figlio e rappresentano, ciascuno a proprio modo, lo scarto dai valori fondanti dell’etica austriaca, con l’incapacità quasi patologica di adeguarsi alle regole non dette, alla precisione, alle convenzioni della ricca e irreprensibile borghesia lavoratrice. 
L’arco temporale attraversato da questa storia prende il via in piena età imperiale, nel 1888, quando Vienna è ancora il centro di un mondo di lusso e di splendori, ancorché nascostamente fragile; è l’età di Francesco Giuseppe – il padre della patria – e del sogno di un’Austria multietnica e transnazionale, utopia perfetta degli stati uniti d’Europa. Mentre Henriette soffre, invecchia, partorisce e i suoi figli crescono, l’Austria intraprende l’inesorabile sentiero della sua caduta: la prima guerra mondiale ne è metafora eclatante, e la famiglia degli Alt ne affronta le conseguenze con ostinata incapacità di comprendere, mentre il giovane Hans si allontana sempre di più dal nucleo familiare – in primo luogo la fabbrica di pianoforti – per scoprirsi sempre più incapace di adeguarsi alla vita che lo circonda. 
Gli ultimi capitoli testimoniano l’avvento del nazismo e la scomparsa definitiva dell’ideale mitteleuropeo: l’esperienza di lettura di questo libro è particolarmente bella nel prendere atto di come, insieme al tempo storico, anche la scrittura si modifichi, trasformandosi da lieta e leggera a gradualmente più cupa e meditativa, con straordinari brani di introspezione e di riflessione politica. I suoi temi principali sono quelli della grande scrittura austriaca dell’epoca (penso, in particolare, a Musil e Schnitzler, qui più volte citato): l’inettitudine dell’individuo a cospetto della gigantesca macchina burocratica dell’impero; la costante sofferenza psicologica; l’inarrestabile cupio dissolvi che induce i personaggi (fittizi, nonché storici, come il principe Rodolfo) alla tentazione del suicidio. «Hans faceva parte di coloro che non si univano agli altri. […] lui, “uomo senza qualità”, conosceva la misura della sua inibizione, del suo essere radicato nell’Austria. Aveva scoperto che il suo ardente “patriottismo” non era affatto una questione di orgoglio ferito che non gli permetteva di vivere in un Paese umiliato e sconfitto fino all’annientamento, bensì una questione esistenziale. […] riteneva l’Austria qualcosa di più di un bel Paese: per lui era l’idea della convivenza tra individui di sentimenti diversi, quindi la salvezza del mondo».