12 luglio 2016

L'autobiografia di Agatha Christie

Le biografie dei grandi autori della letteratura mi incuriosiscono sempre. Non perché mi interessino le parentele o le vicende familiari (a meno che nell’albero genealogico non compaiano altri nomi illustri), ma perché – a dispetto delle teorie sulla “morte dell’autore” – credo che in un’opera biografica si possano in qualche modo percepire le motivazioni che hanno indotto un autore a scrivere una determinata cosa. O a non scriverla affatto. 
Un “sottogenere” particolarmente avvincente sono le autobiografie, che sono di solito dei volumi ponderosi, e che per tutto il loro procedere non mancano di destare in noi delle domande ben precise: l’autore sta dicendo la verità? queste memorie sono del tutto autentiche o sono filtrate dalla sua immaginazione? e se subiscono una flessione verso la fiction, lo fanno perché anche i ricordi dello scrittore sono stati involontariamente influenzati dalla sua natura creativa oppure perché l’io narrante ha deliberatamente scelto di raccontarci una verità parziale? 
Queste domande inseguono il lettore per tutto lo sviluppo di La mia vita, l’autobiografia di Agatha Christie (Mondadori, trad. it. di M.G. Castagnone). Nella Prefazione e nell’Epilogo la scrittrice ci fornisce i termini cronologici della composizione, iniziata nel 1950 nella casetta presso gli scavi di Nimrud, in Iraq – dove Agatha viveva con il secondo marito, l’archeologo Max Mallowan –, e terminata nel 1965 a Wallingford, nel Berkshire. È evidente da questo e da tanti altri elementi del testo che l’autrice ha intenzione di mantenere uno stretto controllo sulla narrazione, portando noi lettori esattamente dove lei desidera condurci – senza nessuna spiacevole deviazione. «Ho ricordato quel che volevo ricordare», afferma; e ancora: «ciò che desidero è immergere la mano nel sacchetto dei ricordi ed estrarla con una manciata» (evidentemente accantonandone molti altri). È opportuno, dunque, leggere questa autobiografia non come una “confessione” ma come l’ennesimo dei suoi coinvolgentissimi libri, ricco di avvenimenti, di colori, di ironia, di persone, con un lieve tocco di nostalgia per la limpida gioia dei primi anni e con la chiara volontà di sorvolare sulle sofferenze più acute della sua esistenza. 
I capitoli più belli sono quelli dedicati all’infanzia e alla prima adolescenza. I ricordi di Ashfield, la casa natale a Torquay (Cornovaglia), sono pieni di tenerezza, e Agatha ci fa camminare insieme alla “lei” bambina fra i suoi giocattoli, nell’aula delle lezioni con la sua affezionata bambinaia, nella cucina con l’instancabile cuoca che preparava focaccine e cioccolata calda, nel bellissimo giardino con «il leccio, il cedro e la Wellingtonia» dove era solita inventare storie, incessantemente borbottando a bassa voce nell’atto di crearle e di raccontarle a se stessa (identica procedura che avrebbe adottato in futuro con i suoi romanzi). Tra fuggevoli memorie dei grandi personaggi che passavano per casa (Henry James, Rudyard Kipling), fulmini di colori e di profumi (i ranuncoli, il tiglio), giostre, amicizie infantili, letture di Sherlock Holmes, la stagione del debutto, spettacoli teatrali, cibi di tutti i generi, nuvole di seta, crêpe de Chine e taffetà, si arriva al 1914, con la guerra e l’inizio della consapevolezza del voler scrivere romanzi. 
A questo punto comincia un’altra fase della vita di Agatha: l’età adulta, che se già per definizione comporta un mutamento radicale nel nostro modo di guardare e di intendere la vita, nel suo caso significò il risveglio da un sogno bellissimo. Per Agatha diventare grande volle dire lavorare nelle infermerie traboccanti di soldati feriti, un amore sempre complicato e un po’ inquietante con il marito Archie Christie, le difficoltà economiche. I brani più interessanti di questa parte sono quelli che riguardano il lavoro della scrittura – la gestazione degli intrecci, la creazione dei personaggi di Poirot, Hastings, Tommy e Tuppence e Miss Marple, la compilazione dei quaderni di appunti, le vicende editoriali, i libri scritti sotto pseudonimo, lo “scandalo” di Roger Ackroyd. Sono gli anni del giro intorno al mondo (raccontato nei dettagli in un altro libro di recente pubblicazione di cui ho parlato qui), dell’infanzia della figlia Rosalind e del penoso abisso in cui la scrittrice precipitò nel 1926, con la morte della madre, la separazione da Archie e l’episodio, mai pienamente spiegato, degli undici giorni della sua scomparsa – alla quale Agatha non fa riferimento alcuno.
L’ultima fase è quella segnata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, dell’affermazione come scrittrice professionista, del secondo matrimonio, della vecchiaia. Qui la dominante sembra essere la malinconia, anche se la “donna” provata dai dolori dell’esistenza talvolta sparisce dietro l’incontenibile forza della fantasia della “scrittrice”: «Penso che la gratitudine che si prova nei confronti della vita non sia mai tanto forte e vitale come in questi anni. Ha la concretezza e l’intensità dei sogni, e a me sognare piace ancora molto». Il “senso della vita” di Agatha Christie è forse proprio questo, ed è una convinzione che sembra davvero sincera, e perciò confortante: «Mi piace vivere. È capitato anche a me di essere in balia di una profonda disperazione, di un’infelicità acuta, o di un terribile dolore, eppure so con certezza pressoché assoluta che essere vivi è una cosa straordinaria».


Consiglio la visione dello splendido documentario in inglese (ITV) «Perspectives. The Mystery of Agatha Christie», disponibile su YouTube cliccando qui. È il racconto della vita di Agatha attraverso i suoi luoghi, le sue lettere, i suoi diari e le fotografie, guidato da David Suchet, l'attore che ha interpretato l'investigatore belga nella lunga serie televisiva «Agatha Christie's Poirot». Da vedere anche «Agatha Christie's Garden», disponibile qui.