3 settembre 2015

La società letteraria di Guernsey

Quest’anno è benedetto da letture bellissime. Scorrendo i post di questi primi due terzi del 2015 mi accorgo di aver potuto godere di romanzi indimenticabili, molti dei quali sono andati ad aggiungersi alla lista dei miei preferiti in assoluto (qui). Sono stata molto fortunata: non c’è niente di meglio che sentirsi bene grazie ad un buon libro. 
L’ultimo gioiello, in ordine di tempo, è La società letteraria di Guernsey, unica opera di Mary Ann Shaffer (Sonzogno, trad. it. di Giovanna Scocchera). Lo inseguivo da diversi anni, da quando l’avevo scoperto, attratta dalla sua copertina, sugli scaffali del Salone del Libro di Torino nel 2012; quel giorno lo lasciai lì, per le mani e gli occhi di altri lettori, ma il desiderio di leggerlo era sempre rimasto vivo. E adesso so che c’era un’ottima ragione. È una storia epistolare, che proprio per questo, e per la sua dichiarazione d'amore alla lettura, all’inizio mi ha ricordato un altro librino al quale sono particolarmente affezionata, ovvero 84 Charing Cross Road di Helene Hanff (di cui ho scritto qui): i libri che raccontano la loro stessa genesi sono sempre affascinanti. 
La voce principale di La società letteraria di Guernsey è quella di Juliet Ashton, scrittrice e giornalista, che nel gennaio del 1946, per puro caso, inizia a intrattenere una felice corrispondenza con gli abitanti dell’isola di Guernsey (territorio britannico al largo della Normandia), venendo a conoscenza del loro stile di vita, del loro gruppo di lettura – intitolato alla “Torta di Patate” – e soprattutto dell’occupazione tedesca appena conclusa. Non se ne sente parlare di frequente, sui libri di storia o nei documentari, ma una piccola parte delle isole britanniche fu effettivamente invasa dall’esercito nazista: gli abitanti di Guernsey dovettero spedire via i loro bambini per proteggerli dall’invasione; dovettero sopportare per cinque anni la presenza dei soldati, le vessazioni e la privazione della libertà personale imposta dai tedeschi, e assistere alle stesse violenze e ai medesimi soprusi che travolsero l’Europa continentale negli orrendi anni del conflitto. 
Il tono del libro è pervaso da una delicatezza che, se possibile, è ancora più straziante di una voce cronachistica. I racconti dell’invasione sono riportati attraverso le lettere degli abitanti dell’isola – caratterizzati così bene che ci pare di averli seduti in salotto con noi: una signora erudita, un contadino silenzioso, una bizzarra signorina, un nonno amorevole, un maggiordomo tornato dai campi di concentramento, e una donna coraggiosa, scomparsa nel nulla, di cui tutti parlano con affetto. I resoconti tragici sono momenti di emozione profonda intrecciati ad aneddoti divertenti e lievi, a volte persino un po’ romantici. Torte di lamponi, arrosti di maiale, libri di poesie, letture di Jane Austen, biografie di Charles Lamb, coprifuoco, povertà, fame, sorrisi, pleniluni sul promontorio, profumi di mare e di fiori, francobolli, giocattoli di legno, ricordi: tutto è tenuto insieme, come l’amido di un impasto fragrante, dalla celebrazione della bontà umana, e delle semplici gioie dell’amicizia. Sul tram, ieri, ho dovuto chiudere il libro, perché si stava facendo davvero troppo commovente per continuare a leggerlo in pubblico….  «[Durante l’occupazione] ci aggrappammo ai libri e ai nostri amici: ci ricordavano che esisteva anche qualcos’altro. Elizabeth recitava spesso una poesia. Non me la ricordo tutta, ma cominciava così: “È davvero cosa di poco conto aver goduto del sole, aver vissuto la luce in primavera, aver amato, curato, apprezzato, conosciuto veri amici?” No che non lo è. Spero che se lo ricordi ovunque sia.»