5 novembre 2014

Quel che non sapeva Jane

Edgar Melville Ward,
"The Washing Day", 1874
(Fonte: artnet.com)
Una delle mie composizioni in versi preferite è la poesia di Anna Barbauld (1743-1825) “Washing Day”, che approfittando della cornice del giorno del bucato racconta la grande forza e determinazione delle donne e allo stesso tempo paragona la voce poetica alle bolle di sapone — evocando così non solo sensazioni di leggerezza ma anche la capacità della poesia di librarsi in aria e di raggiungere l’infinito. Le immagini richiamate dai primi versi sono fulminee, vera espressione dell’energia e della fatica del bucato all’inizio del diciannovesimo secolo: scorgiamo le braccia rosse e il volto corrucciato delle donne, il gatto che scappa via dalla cucina per paura dell’acqua spruzzata ovunque, la colazione abbandonata a metà perché il cielo si sta rannuvolando e bisogna iniziare immediatamente a lavare e a stendere, l’uomo di casa che si aggira sperduto in giardino, timoroso di intralciare il lavoro, e che viene aggredito dai panni appesi ai fili, che garriscono come bandiere di guerra. Il tono di “Washing Day” è fortemente ironico, e alcuni critici hanno rimproverato a Barbauld l’assenza di una visione seria e ragionata sulle fatiche reali compiute dai servitori e dalle domestiche, le cui condizioni di vita e di lavoro, persino nell’illuminata Inghilterra del primo Ottocento, violavano anche la minima parvenza dei diritti della persona. 
Longbourn House di Jo Baker (Einaudi 2014), il libro che ho letto la scorsa settimana, si fa invece carico di questa esigenza e comincia — secondo me non a caso — esattamente in un giorno di bucato. Ambientato nella casa della famiglia protagonista di Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, questo racconto sfiora vagamente le risaputissime vicende di Elizabeth Bennet (Mr. Darcy si fa vedere sì e no un paio di volte) e si concentra invece sulle storie dei domestici di Longbourn, costruendo una narrazione intensa e forte, votata a un implacabile realismo. 
I motivi di questo libro, che mi è piaciuto davvero molto, sono molteplici e intrecciati con grande sapienza narrativa. La rappresentazione di “quel che non sapeva Jane” — o che magari sapeva ma non voleva raccontare, preferendo lasciare che “altre penne si soffermassero sulla colpa e la miseria” (Mansfield Park, cap. 48), è vividissima: pagina dopo pagina ci scontriamo con la sporcizia del vivere quotidiano, con le conseguenze talvolta disgustose della corporeità, con sofferenze fisiche concrete, con la barbara, crudissima violenza della guerra e con il terrore di una giustizia cieca e approssimativa — sì, persino nell’illuminata Inghilterra del primo Ottocento (come del resto ci racconta bene Elizabeth Gaskell in Gli innamorati di Sylvia).
Quello che in definitiva mi è sembrato di riconoscere come il tema principale del romanzo è la contrapposizione tra due universi distinti: da una parte vivono coloro che possiedono, dall’altra coloro che non hanno niente. I riferimenti al “possesso”, che a sua volta genera “sicurezza” (opposta alla rovina, alla degradazione e all’annichilimento di chi non ha un posto dove stare, fosse anche un posto di lavoro) sono frequentissimi: se Sarah, la protagonista, possiede solo una scatola di legno, le camere delle ragazze Bennet e della loro madre sono ingombre di cose — scarpe, gioielli, nastri, suppellettili, stoffe, cappellini, fiori, scialli —, dalla cucina non fanno che uscire cibi di tutti i tipi, e in quantità strabordante, gli uomini che fanno la loro comparsa sulla scena non sono citati altrimenti che per il denaro che possiedono, e persino Elizabeth si rivolge alla sua cameriera come se si trattasse di una proprietà di cui poter disporre senza eccessivi ripensamenti (a questo proposito devo osservare che il ritratto di Lizzy in Longbourn House è davvero interessantissimo). 
Molto significativo e visibile, dunque, è anche il richiamo di Jo Baker alla politica contemporanea (di cui, come sappiamo, Jane Austen si occupa solo marginalmente, lasciando che sia il lettore a dedurre le implicazioni sociali ed economiche di romanzi come Mansfield Park o Persuasione). Le guerre napoleoniche non sono qui una vaga minaccia, ma una presenza viva, che coinvolge in prima persona uno dei protagonisti; e la natura delle ricchezze di parte della società inglese, derivata da un atroce sfruttamento imperialista, non si nasconde, ma prende forma chiara nelle parole del valletto (mulatto) di Mr. Bingley. 
Nella bella trasposizione cinematografica del 2005 di Orgoglio e pregiudizio (regia di Joe Wright), che mette in atto un’interpretazione del romanzo da un punto di vista dichiaratamente ispirato al Romanticismo con la sua preponderanza del paesaggio, le sue musiche e la rappresentazione dell’armonia tra natura e sentimenti umani (emblematiche, a questo proposito, la prima proposta di matrimonio di Darcy, che avviene in un parco sotto la pioggia battente, anziché nel salotto dei signori Collins, e la scena che vede Lizzy su una delle vette del Peak District), sentiamo in più di un’occasione la serva di Longbourn che canta. Leggendo la storia di Sarah narrata da Jo Baker ci viene da pensare che lei non avrebbe mai avuto l’energia e la voglia di cantare. Longbourn House, infatti, non ha proprio niente di romantico, ma ha il pregio di mostrarci, senza filtri, la verità.