26 febbraio 2012

Alla tavola di Virginia Woolf

Questa settimana ho letto Alla tavola di Virginia Woolf, un grazioso saggio di Elisabetta Chicco Vitzizzai. Si tratta di una raccolta di brani tratti dai romanzi di Woolf accomunati da un'insolita caratteristica: quella dei riferimenti al cibo; al termine di ogni citazione compare poi la ricetta che ci aiuta a riprodurre a casa nostra le piacevolezze alimentari della scrittrice. Virginia amava cucinare: spesso scambiava ricette con la sorella Vanessa (come testimoniano alcune lettere), e nei suoi straordinari racconti i cammei di particolari alimenti o di precise pietanze paiono piccole tessere di mosaico senza le quali un'immagine non sarebbe perfetta. Virginia stessa afferma: "Una gita perfettamente riuscita deve comprendere secondo me una visita alle bancherelle dei libri, dei bonbon, pranzare da Mutton, l'orchestra sul lungomare, [...] il tè da Booth, i panini del forno di Cowley." E a proposito del vino scrive: "Sollevo il calice dal gambo sottile, sorseggio. [...] Nel bere non posso fare a meno di trasalire: eccoli, i profumi, la luce, il caldo, tutti distillati in questo liquido giallo, infocato. [...] E' l'estasi, la liberazione."
La cucina, esplorata soprattutto nella sua anima muliebre, è intesa in questo libro come tentativo di porre ordine nel caos universale: a questo proposito viene riportato un brano dal commovente Gita al faro (To the Lighthouse) che recita: "Le due donne, curvandosi e rialzandosi, sospirando o cantando, ora sprimacciavano ai piani di sopra, ora sbattevano giù nelle cantine, [e] sembrò aver luogo un nascimento rugginoso e travaglioso, accompagnato da cigolio di cardini, da stridore di chiavistelli, da tonfi e sbattimenti d'affissi imporriti."
Il tavolo da scrittura di Virginia a Monk's House
E' bellissimo come il sacro rito del mangiare si sposi con tutte le altre occupazioni della vita quotidiana, e in particolare con il lavoro del letterato; nello stesso romanzo si legge: "Ed ecco il fragoroso clangore del gong annunziare solennemente, autorevolmente, che le persone disperse nelle soffitte, nelle camere, nei piccoli rifugi particolari, a leggere, a scrivere, a dar l'ultimo tocco alla pettinatura, ad agganciarsi il vestito, dovevano lasciar lì, posare gli strumenti di bellezza sui lavabi e sulle pettiniere, posare i romanzi sui comodini, interrompere gl'intimi diari e radunarsi a mensa." 
Questo piccolo saggio si innesta bene in quell'ideale assai diffuso - che molti rifiutano ma che io, assetata anche emotivamente di letteratura, non posso che condividere - per cui la vita personale degli autori (e per quanto mi riguarda, soprattutto delle autrici) effonde un fascino irresistibile. Un breve e ben composto passo all'inizio del libro esprime molto bene questa realtà, e lo fa in una forma di descrizione degli oggetti che li riempie di umanità, ovvero ne indaga la potenzialità vitale e sentimentale che essi inevitabilmente assumono per gli esseri umani. Descrivendo la stanza tutta per sé di Virginia Woolf, l'autrice parla de "la poltrona su cui si rannicchiava per scrivere, ormai sfondata, il tavolo pieno di cianfrusaglie, di carte, di buste strappate, di pezzi di spago, di vecchi bocchini per le sigarette che si faceva da sé, di pennini spuntati, di fiammiferi usati e nuovi, di grosse bottiglie di inchiostro." Ed è la stessa Woolf a confermare quanto i singoli oggetti, le minime cose, siano i responsabili della costruzione dell'identità di un luogo, e allo stesso tempo dei suoi abitanti: "La stanza era piena di mobili. Di fronte ad esse stava una mensola sui cui ripiani erano disposte delle porcellane azzurre; il sole della sera d'aprile gettava chiazze luminose sui vetri del mobile" (da: Gli anni, The years). 
E se anche voi, come me, siete affascinati dall'idea che una casa racchiuda in sé i sussurri che le grandi narratrici hanno tramutato in parole immortali, non perdetevi La scrittrice abita qui di Sandra Petrignani, pubblicato da Neri Pozza nel 2002.